In questa estate infuocata e così carica di paura per le sorti dell’Europa e per la stabilità finanziaria del nostro Paese, è doveroso il richiamo alla responsabilità. Nessuno – istituzioni, partiti, forze sociali, cittadini – può sottrarsi. Ma l’esercizio della responsabilità non è solo la pretesa di un comportamento altrui.
Il premier Monti si sta prodigando per mettere l’Italia in sicurezza, minacciata com’è dai tassi troppo elevati con cui è costretta a finanziare il proprio debito. E la sua preoccupazione è condivisibile, compresa l’indicibile riserva di elezioni anticipate in autunno qualora l’emergenza si rivelasse tecnicamente ingovernabile da un governo di tecnici. Tuttavia anche il presidente del Consiglio dovrebbe evitare di rappresentare i nostri affanni sui mercati come se questi dipendessero dal «rischio democratico» delle elezioni future: non si può passare di colpo dalla narrazione di uno spread impennatosi per colpa del governo precedente al racconto di un spread che resta alto per colpa del governo futuro.
Ci vuole misura, e rispetto, per la regola democratica, che resta la via maestra per il riscatto di un Paese. Come ci vuole rispetto per le istituzioni. Cosa ha a che spartire con il centrosinistra di domani un Di Pietro che evoca persino l’impeachment di Napolitano – per «tradimento» della Costituzione – solo perché il Capo dello Stato ha chiesto il giudizio della Consulta su una intercettazione telefonica che lo riguarda e che la stessa Procura di Palermo ha giudicato penalmente irrilevante e ininfluente ai fini dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio? Quale moralità della politica c’è dietro una volontà di conflitto, che dimentica le priorità sociali, per inseguire i demagoghi di turno? Quale credibilità c’è nel sottrarsi alla responsabilità di oggi e candidarsi magari a quella di domani?
Allo stesso modo è inaccettabile il comportamento del Pdl, che per un verso protegge la propria crisi dietro la paratia della Grande coalizione e per un altro traffica con la Lega in Senato, per piccole quote di potere e un po’ di propaganda, ripristinando all’occorrenza la vecchia maggioranza, quella che ha portato il Paese alla soglia del default. È uno scempio ciò che è accaduto nei giorni scorsi: pur di affossare le riforme istituzionali, hanno rialzato la bandiera del presidenzialismo; pur di nominare un senatore Pdl alla presidenza della commissione Difesa, hanno stracciato la regola più elementare di convivenza parlamentare; pur di impedire una riforma del Porcellum, sembrano ora disposti a qualunque trabocchetto. Il Pdl ha dato il via libera a Monti perché non poteva fare altrimenti. Ma non è stato capace di diventare partito e neppure di dare una successione a Berlusconi. Ora pare avere un solo scopo: impedire che il centrosinistra vinca le elezioni, a qualunque costo.
Ma la responsabilità è richiesta anche al Pd e al centrosinistra. Lo spettacolo dell’ultima Assemblea nazionale è stato mortificante per i suoi sostenitori. Non tanto per il dissenso che si è manifestato attorno al tema delle unioni omosessuali: se un dissenso esiste, non c’è ragione democratica perché non si manifesti. La quasi rissa che ha concluso quella riunione, però, ha dato un senso di inadeguatezza, di irresponsabilità, appunto. Perché, come si è visto nei giorni successivi, la convergenza sul merito era assai maggiore delle diversità. Perché il documento del comitato Bindi conteneva aperture e innovazioni, che avrebbero dovuto essere discusse e valorizzate, prima di uteriori approfondimenti e critiche. E perché non ha senso, al di là delle legittime opzioni giuridiche sulla tutela delle unioni civili, mettere in discussione la natura del Pd come «partito di credenti e non credenti». Proprio ora che il Pd è chiamato a farsi carico, più di ogni altro, di una funzione nazionale. È il partito della nazione, su cui è possibile ricostruire una democrazia competitiva e un governo di respiro europeo. Se fallirà, non è detto che la nostra discussione sui diritti sociali e civili possa continuare sui paradigmi di oggi.
C’è bisogno di responsabilità. E di forza politica nella battaglia. Abbiamo davanti un bivio storico, che può condurre al rinnovamento o allo stravolgimento del nostro modello sociale, che ci può far riconquistare la democrazia politica oppure ce la può far perdere decretando la servitù alla finanza, alle sue oligarchie, persino alle sue dinamiche corruttive. Non ci sarà vera uscita dalla crisi senza democrazia. Vale per l’Italia, vale per l’Europa. Chi vuole prorogare sine die il governo dei tecnici, magari spalleggiando quando serve la demagogia anti-partiti e il populismo dei leader carismatici (siano essi Berlusconi o Grillo), in realtà sta zavorrando il Paese. Altro che sviluppo.
Tocca alle forze politiche, anzitutto al centrosinistra, proporre una credibile alternativa di governo. Senza più le ammucchiate modello Unione. Poi però la responsabilità sarà degli elettori. Che sia l’autunno prossimo o la primavera 2013 non ci saranno alibi. Chi era Berlusconi lo sapevano i cittadini che lo hanno votato e anche le classi dirigenti che largamente lo hanno sostenuto.
L’Italia non è declinata per un destino cinico e baro. È stato il frutto di una scelta, o meglio, di una convergenza di interessi. Presto la scelta da fare sarà ancora più importante, perché la crisi brucia i tempi. Coesione o rottura nazionale. Governo europeo o populismo nostrano. Continuità nella linea economica o alleanze per cambiarla. È una responsabilità storica. Nessuno potrà scaricare su altri i propri errori.
L’Unità 22.07.12