La giornata di venerdì non è stata la più felice sui mercati europei. In particolare non lo è stata per la Spagna e per l’Italia, ma — almeno per noi — nulla che somigliasse a un’ondata di panico. Quella mattina il governo ha lavorato tranquillamente esaminando una serie di provvedimenti in gestazione. Monti ha dichiarato che «il contagio era da tempo un problema con il quale ci si deve misurare» e che «l’Italia i suoi compiti li ha già fatti e altre manovre restrittive non sono e non saranno all’ordine del giorno». Il giorno prima si era recato al Quirinale.
L’incontro è stato messo in relazione — da alcune voci interessate a diffondere nervosismo e incertezza — con il ribasso delle Borse e con il “contagio”, come se il premier l’avesse scoperto solo allora; i ribassisti sono specializzati nel manipolare i fatti per rendere più profittevoli le loro iniziative. Sta di fatto che il colloquio con il Quirinale aveva tutt’altro tema; un tema che Monti sta rimuginando da tempo e che al punto in cui siamo riteneva indispensabile sottoporre al capo dello Stato: l’eventuale anticipo delle elezioni entro il prossimo ottobre anziché attendere l’aprile del 2013 come finora si pensava e come i tre partiti della “strana maggioranza” si erano impegnati a garantire. Non crisi pilotata, dunque, ma scioglimento delle Camere e nuove elezioni.
Un capovolgimento così imprevisto deriva evidentemente da un accurato esame della situazione politica ed economica. E Monti lo spiega così: a partire dalla ripresa settembrina i partiti entreranno di fatto in campagna elettorale; le distanze e le crepe all’interno della strana maggioranza aumenteranno per ovvie ragioni elettorali e le forze d’opposizione a loro volta accresceranno i toni per convogliare i voti dei ceti che sopportano i maggiori sacrifici della politica di rigore. Insomma, l’atmosfera peggiorerà e l’azione di governo rischierà di risultare paralizzata, come in parte sta già avvenendo.
I mercati ne approfitteranno spargendo sul fuoco politico il loro olio ribassista. Continuare in queste condizioni fino all’aprile senza sapere come andranno le elezioni, chi verrà dopo Monti e con quale programma, è un rischio enorme che spiega fin d’ora almeno una parte del nervosismo che deprime i listini e accentua lo sbilanciamento degli “spread”.
Per stroncare queste aspettative della speculazione e dei mestatori d’ogni risma e colore non sarebbe meglio interrompere subito la legislatura aprendone un’altra? Con una maggioranza non più “strana” ma questa volta politica che abbia come programma di proseguire la linea montiana in un quadro europeo dove il mantenimento del rigore sia finalmente affiancato da un vero sviluppo e da una tangibile equità sociale? Questo è stato l’argomento principale dell’incontro al Quirinale.
Venerdì Monti ha preso il treno per Milano alle 17 per passare finalmente un weekend in santa pace con la moglie sul Lago Maggiore. Evidentemente non era affatto sconvolto dal panico. Sapeva che il collocamento dei titoli alle aste in scadenza non presenta difficoltà, confidava (e confida) che sia l’Olanda sia la Finlandia ritireranno i loro veti all’operazione del fondo “salva Stati” sugli “spread” da lui patrocinata; aveva avuto un colloquio importante e rassicurante con Draghi.
Ora aspetta che Napolitano rifletta sull’ipotesi di elezioni anticipate per poi decidere il da farsi dopo le necessarie consultazioni informali con i partiti che sostengono il governo.
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Che cosa pensi Napolitano su quest’argomento è impossibile dirlo, ma un punto è chiaro: il calendario è strettissimo. Se si decidesse di votare entro la fine di ottobre bisognerebbe sciogliere le Camere nella seconda metà di settembre. Prima di allora occorre che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale perché andare a votare con questa è escluso: darebbe legittimamente fiato alle trombe dell’antipolitica con esiti probabilmente catastrofici per la democrazia italiana. Lo sfascismo si rifletterebbe moltiplicato per cento sui mercati. Insomma una vera tragedia non solo per l’Italia ma per l’Europa.
Le conseguenze sul calendario rendono strettissimo il margine di tempo per approvare la legge elettorale: dev’essere approvata entro la prima metà di settembre. Tenendo conto che le Camere lavoreranno fino al 10 agosto e riprenderanno alla fine del mese ci sono venti giorni a partire da domani e quindici giorni in settembre. Il tempo c’è purché ci sia un accordo e l’accordo è in teoria raggiungibile: una legge con criteri proporzionali ma con un premio di governabilità per il partito che raggiunga la maggioranza relativa, restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i candidati attraverso collegi uninominali e/o voti di preferenza alle liste, oppure un mix tra questi due sistemi, con soglie per evitare un eccessivo frazionamento. Infine, possibilità di coalizioni e nessun nome di leader sulle schede elettorali.
Questi sono i problemi sul tappeto, derivanti in parte dal calendario in parte dalla capacità dei partiti di varare in tempo utile una legge elettorale decente, più o meno di questo tipo.
La decisione naturalmente spetta al presidente della Repubblica al quale la Costituzione conferisce il potere di scioglimento anticipato della legislatura. Dice esattamente così la Costituzione e non mette alcun paletto a questa prerogativa presidenziale. Naturalmente non sarebbe certo uno scioglimento determinato dal cattivo esito della politica di Monti. Al contrario: proverrebbe da una valutazione positiva dell’operato del governo e dai suoi dieci mesi di attività. Di qui la necessità di proseguire quella politica non più affidandola ad un governo tecnico ma con la diretta partecipazione di esponenti politici, come del resto Monti avrebbe voluto che avvenisse anche nel governo attuale. Ma quale maggioranza verrà fuori dalle elezioni? E quale sarà la posizione di Monti nel nuovo governo?
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Sarebbe molto interessante poter entrare nella testa di Giorgio Napolitano ma è escluso che si possa entrare nella testa e nei pensieri di chicchessia, visto che è difficilissimo perfino entrare nella propria. Una cosa però è certa: anche Napolitano starà riflettendo sulle questioni fin qui indicate perché è a lui che tocca decidere ed è molto grande la responsabilità che gli incombe.
Riflettiamo anche noi. È possibile che un partito come il Pd proponga ai suoi elettori un’alleanza politica che attui il programma economico montiano ed abbia come alleato il partito di Berlusconi?
La risposta è sicuramente no. Il Pd è attualmente collocato tra il 25 e il 30 per cento dei voti con un bacino potenziale di oltre il 40 per cento, in presenza di un astensionismo del 35 e d’uno strato di indecisi del 15 per cento. Una parte notevole dei votanti per il Pd e del bacino potenziale ha la fisionomia di quella che un tempo si chiamava sinistra democratica. La sinistra democratica può essere disponibile ad allearsi con partiti d’ispirazione liberale, non certo con il partito proprietario berlusconiano. In esso i veri liberali non mancano. Si facciano avanti. Se non ora quando?
Pensare che il Pd — auspicabilmente partito di maggioranza relativa — si allei non dico con Berlusconi ma con Cicchitto, Gasparri, La Russa “et similia”, sembra da escludere. Nasca una vera destra repubblicana e si alterni in futuro con la sinistra democratica e liberale, ma queste sono ipotesi desiderabili e futuribili. Il tema di oggi è un altro e si risolve con un’alleanza della sinistra democratica con un centro liberale per proseguire il montismo dando spazio allo sviluppo e all’equità, naturalmente nel quadro europeo.
Facile dirlo, ma che cosa significa esattamente “il quadro europeo”?
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Avviso i lettori che hanno avuto la cortesia di seguirmi fin qui che ora il tema diventa più complesso, entrano in gioco altri personaggi e altre forze. Cercherò di essere il più chiaro possibile.
Il quadro europeo ha come obiettivo finale la nascita di uno Stato federale al quale gli Stati nazionali cedano una parte della loro sovranità, soprattutto per quanto riguarda la politica di bilancio e quindi il fisco, la spesa, la politica dell’immigrazione, le grandi opere infrastrutturali europee, i diritti e i doveri di cittadinanza.
In questo quadro, la Germania ha un ruolo di grande rilievo ma insieme con lei ce l’hanno tutti gli altri Paesi dell’eurozona ed anche alcuni che sono al di fuori di essa. Ruoli altrettanto importanti di quello tedesco ce l’hanno la Francia, l’Italia, la Spagna.
Il punto d’arrivo di questo processo è condiviso da tutti i protagonisti a cominciare dalla cancelliera Angela Merkel, quindi si procede compatti verso l’obiettivo finale anche se in tutti i Paesi esistono falchi che si oppongono e interessi che reclamano tutela. Ma c’è un però: anche se la squadra degli esperti sta lavorando intensamente sui dossier del futuro Stato federale, quanto tempo ci vorrà? Gli ottimisti dicono cinque anni, i pessimisti dicono dieci. Ebbene, non si può aspettare tanto, è necessario che nel frattempo accada qualcosa di efficace e di importante.
Efficace e importante è l’unione bancaria, un’assicurazione che garantisca i depositi e la vigilanza sugli istituti di credito demandata alla Bce. Anche su questi obiettivi tutti i protagonisti sono d’accordo ed anche qui esistono falchi e interessi conservatori. Ma quanto tempo ci vorrà? Gli ottimisti dicono un anno, i pessimisti due. Si va avanti a tutta forza ma non basta. A questo punto entra necessariamente in scena Mario Draghi.
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Draghi ha accordato un’intervista a Le Monde che oggi pubblica anche il nostro giornale. L’intervista è importante ed è anche una novità perché il presidente della Bce non ama parlare con i giornali. Questa volta l’ha fatto e l’ha fatto bene. Segno che era il momento giusto.
Enumera anzitutto quali sono i poteri e lo “status” della Banca centrale da lui guidata. Anzitutto la sua indipendenza dai governi, poi le cose che può fare e quelle che non può fare. Non può intervenire a sostegno dei debiti sovrani, cioè non può partecipare alle aste di quei titoli. Deve vegliare sulla stabilità della moneta e dei prezzi. Deve vigilare sulla stabilità finanziaria. Può intervenire per rassicurare quelle due stabilità, ma, ha aggiunto, che per ora non c’è alcuna minaccia né alla moneta né alla finanza, per ora dunque non c’è bisogno d’intervenire.
Ma se quel bisogno ci fosse? «Allora si vedrà» ha risposto. Poi, sollecitato ulteriormente: «Probabilmente qualche cosa faremo».
Qual è esattamente l’intervento che potrebbe effettuare oltre a quello “non convenzionale” che fece nel dicembre e nel gennaio scorsi prestando a tre anni e all’1 per cento di interesse mille miliardi al sistema bancario europeo?
Può intervenire sul mercato secondario dei titoli per calmierare lo “spread”. L’ha già fatto ampiamente nell’autunno del 2011 acquistando titoli italiani e spagnoli ma anche francesi e austriaci, forse perfino tedeschi.
Questo dovrebbe fare adesso. È necessario? Sì, caro Mario Draghi, è necessario e nessuno lo sa meglio di te. Basterebbe l’annuncio e un inizio d’intervento per spuntare le unghie della speculazione che vuole disarticolare il sistema euro. Questo tipo d’intervento consentirebbe di arrivare in buone condizioni alla nascita dell’unione bancaria, darebbe tranquillità ai governi che potrebbero procedere al taglio delle spese non necessarie e all’abbattimento di alcune imposte sul lavoro e sugli investimenti.
Draghi è il guardiano della stabilità del sistema, i poteri li ha. E anche qui diciamo: se non ora quando?
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C’è un ultimo tema che merita qualche riflessione. Apparentemente non ha alcun collegamento con gli argomenti trattati fin qui, ma non è così, il collegamento c’è: l’attacco in corso contro il presidente della Repubblica persegue un fine di destabilizzazione al tempo stesso istituzionale e politico. Vuole colpire Napolitano e indebolire Monti. Non a caso è portato avanti da gruppi e persone che mettono sotto accusa sia Napolitano sia Monti: Grillo, Di Pietro, i giornali berlusconiani, “il Fatto Quotidiano”. L’accusa a Monti è la solita: ha imposto sacrifici insopportabili ai soliti noti. Tralascio di confutarlo visto che lo faccio da quando questo governo si è insediato.
L’accusa contro Napolitano è di voler impedire l’accertamento della verità nella trattativa tra lo Stato e la mafia. Risale, quella trattativa, agli anni 1992-93. Napolitano non era al Quirinale, c’è arrivato nel 2006, tredici anni dopo e si è sempre battuto affinché quella verità fosse accertata. L’ha ricordata nel suo messaggio di tre giorni fa nella ricorrenza della morte di Borsellino e della sua scorta, indirizzato a tre destinatari: il Consiglio superiore della magistratura, la Procura di Palermo e la moglie e il figlio del magistrato ucciso in via D’Amelio a Palermo.
Ha ricordato le sue battaglie contro la mafia, ha indicato le date e i nomi dei caduti, dei sindacalisti, dei magistrati, dei politici di sinistra, a partire della strage di Portella della Ginestra.
Ha confermato che le indagini della Procura di Palermo possono e debbono proseguire, che raggiungere la verità è un impegno che lo vede parte attiva e partecipe. Ha ripetuto che quell’accertamento deve avvenire nel rispetto della normativa evitando sovrapposizioni ed errori e poi ha ribadito il suo diritto-dovere di chiedere alla Corte costituzionale il chiarimento sulle prerogative del Quirinale sulla base dell’articolo 90 della Costituzione.
Qual è dunque l’accusa? Non c’è, è inventata, è una manipolazione di marca eversiva. Il tema è di capire se il ricorso — necessario — di Napolitano alla Corte impedisca l’accertamento della verità sulla morte di Borsellino. Un accertamento che non ha e non può avere come obiettivo la cosiddetta verità storica, ma la verità che riguarda i reati, quali reati e commessi da chi. Finora e da vent’anni questa verità non è stata accertata o lo è stata in modo drammaticamente sbagliato. Speriamo che in futuro lo sia. Di questo si tratta e non di altro.
E’ forse utile ricordare a chi finge di non saperlo che questo giornale ha fatto della lotta contro la mafia uno dei suoi compiti principali nel quale si sono impegnati i nostri migliori giornalisti da Giorgio Bocca a Giuseppe D’Avanzo a tutta la redazione di Palermo. Mafia siciliana, mafia calabrese e camorra. Grillo a quell’epoca faceva un altro mestiere e Travaglio aveva i calzoni corti.
La Procura di Palermo farà ciò che deve e aspetti, solo per quanto riguarda il tema delle attribuzioni, la sentenza della Corte col rispetto che le è dovuto. E ricordi che le Procure cercano indizi e prove ma chi poi accerta i fatti è il giudice e non il titolare dell’accusa. La mia laurea in Legge mi consente di ricordare questo aspetto elementare che molti ignorano ed alcuni fingono di dimenticare.
La Repubblica 22.07.12
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Draghi: “L’euro non rischia se serve agiremo senza tabù ma ora via all’unione politica”
L’intervista
“Il presidente Bce: l’economia migliorerà a fine anno”, di CLAIRE GATINOIS, ERIK IZRAELEWICZ e PHILIPPE RICARD
«NO, l’euro non è in pericolo». Interrogato su quanto la Bce potrebbe fare per sostenere l’economia, il suo presidente Mario Draghi dichiara «di non avere tabù». Dai vertici Ue a quelli dell’Eurogruppo, la crisi dell’Eurozona continua ad allarmare. Finora sembra che le disposizioni prese dalla Banca centrale europea siano state le sole a calmare i mercati; ma oggi c’è chi le rimprovera di non aver fatto di più.
Il Fondo monetario internazionale ha riveduto al ribasso le sue previsioni di crescita a livello mondiale, a causa dell’Europa. Stiamo rischiando una recessione?
«No. Certo, dall’inizio dell’anno i rischi di deterioramento dell’economia che ci preoccupavano si sono in parte materializzati; la situazione è andata via via peggiorando, ma non al punto di sprofondare i Paesi dell’Unione monetaria nella recessione. Nelle nostre previsioni c’è tuttora un miglioramento molto graduale della situazione alla fine di quest’anno, o all’inizio del 2013».
Grazie alla Bce?
«L’abbassamento del tasso d’interesse della fine del 2011 e quello di luglio dovrebbero produrre i loro effetti, così come i prestiti triennali alle banche, decisi per scongiurare il rischio di restrizione del credito».
La Bce non dovrebbe fare di più per sostenere l’economia, come ha chiesto l’Fmi?
«Noi siamo molto aperti e non abbiamo tabù. Abbiamo deciso di ridurre i tassi d’interesse a meno dell’1%, perché per l’inizio del 2013 prevediamo un’inflazione vicina o anche inferiore al 2%; è anzi probabile un suo riflusso fin dal 2012. Il nostro mandato è mantenere la stabilità dei prezzi, per evitare non solo l’eccesso di inflazione, ma anche il loro abbassamento generalizzato e globale. Se constateremo rischi di deflazione di questo tipo, entreremo in azione».
I mercati hanno salutato Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, ma da allora hanno manifestato qualche dubbio. «Il vertice è stato un successo. Mi sembra che per la
prima volta si sia dato un messaggio chiaro: più Europa per uscire dalla crisi. Une serie di tappe per la creazione di un’Unione con quattro componenti: finanziaria, fiscale, economica e politica. E con strumenti concreti: un’unione finanziaria, un supervisore bancario e la creazione di fondi di soccorso in grado di ricapitalizzare le banche quando questa supervisione sarà operante. E un calendario per l’attuazione di queste tappe».
Si tratta di soluzioni a lungo termine. E per gestire l’emergenza?
«Vorrei parlare della mia esperienza. Nel 1988 il Comitato Delors aveva tracciato il percorso verso l’unione monetaria con un obiettivo, un calendario e una serie di impegni da rispettare. Questa prospettiva è sfociata, nel 1992, nel Trattato di Maastricht. In quel periodo in Italia i tassi d’interesse dei prestiti erano altissimi; ma si sono ridotti bruscamente, prima ancora della diminuzione del deficit, che era all’11% del Pil quando l’Italia si è impegnata nel progetto di unione monetaria. Questo mi induce a pensare che se i Paesi si mostrano fermi nei loro impegni di lungo periodo, gli effetti si vedono anche nel breve termine».
Si rimprovera alla Bce di non fare di più per gli Stati. Forse prima di agire attende gli sforzi da parte dei governi?
«Quest’idea di un mercanteggiamento tra gli Stati e la Bce si fonda su un equivoco. Il nostro mandato non è di risolvere i problemi degli Stati, bensì di assicurare la stabilità dei prezzi e contribuire a quella del sistema finanziario, in piena indipendenza»
Cosa pensa del patto di crescita caro a François Hollande?
«Sarà sicuramente d’aiuto. Ma bisogna andare oltre. Ogni Stato deve fare la sua parte».
Pensa a riforme strutturali, più che a un rilancio in senso keynesiano?
«Sì, anche se si tende troppo spesso a focalizzarsi sulla riforma del mercato del lavoro, che non sempre si traduce in un miglioramento della competitività, dato che a volte le imprese approfittano delle situazioni di monopolio e delle rendite di posizione. Bisogna anche guardare ai mercati dei prodotti e dei servizi, e liberalizzare laddove è necessario. Politicamente, sono decisioni difficili da prendere. In questo senso sarebbe di grande aiuto un’agenda europea, così come un rafforzamento della capacità decisionale comune a livello della Ue».
Dunque, il trionfo delle tesi liberiste?
«No. La fine di certe rendite di posizione è una questione di giustizia, sia per i lavoratori dipendenti che per gli imprenditori e per tutti i cittadini».
Cosa pensa della politica che si sta portando avanti attualmente in Francia?
«Mi rallegro per gli sforzi tesi al risanamento del bilancio, e anche per la priorità alla crescita potenziale, che porrà le basi per la ripresa. Ridurre l’indebitamento è indispensabile. Il Paese deve rispettare il proprio impegno a riportare il deficit al 3% del PIL entro il 2013, continuando così ad approfittare di tassi di interesse contenuti».
Lei è uno degli uomini più influenti d’Europa, ma non è stato eletto. Non pensa che questo sollevi un problema di legittimità democratica?
«Sono consapevole dell’importanza di rendere conto del mio operato. Mi presento al Parlamento europeo una decina di volta all’anno. In termini di comunicazione siamo molto attivi, e saremo pronti a fare di più se i nostri poteri saranno rafforzati. Nelle condizioni straordinarie che viviamo oggi, la Bce deve prendere posizione su questioni che non possono essere risolte dalla politica monetaria, come ad esempio quella degli elevati deficit pubblici, della mancanza di competitività o degli squilibri insostenibili, a fronte dei rischi per la stabilità finanziaria. Dobbiamo preservare l’euro: ciò fa parte del nostro mandato».
Al momento della sua nomina alla testa della Bce lei era considerato come il più tedesco degli italiani. Lo è tuttora?
«Lo lascio dire a lei! Noi dobbiamo mantenere la stabilità dei prezzi nei due sensi. Dobbiamo fronteggiare i problemi così come si pongono, e agire senza pregiudizi».
In un certo senso, lei è molto tedesco quando sostiene gli appelli all’unione politica lanciati da Angela Merkel.
«A mio parere, il movimento verso un’unione di bilancio, finanziaria e politica è inevitabile, e condurrà alla creazione di nuove entità sopranazionali. Il trasferimento di sovranità che ne consegue — ma preferirei parlare di condivisione — è al centro dell’attenzione in alcuni Paesi, mentre non lo è in altri. Ora, in tempi di globalizzazione, è precisamente attraverso questa condivisione che ogni Paese ha le maggiori probabilità di salvaguardare la sua sovranità. A lungo termine, l’euro dovrà essere fondato su una maggiore integrazione».
L’eventuale uscita dalla Grecia dall’Eurozona è di attualità?
«Noi preferiamo, senza alcun equivoco, che la Grecia rimanga nell’Eurozona. Ma la decisione spetta al governo di Atene, che ha dichiarato il suo impegno e ora deve produrre i risultati. Quanto alla rinegoziazione del memorandum [per ammorbidire le riforme imposte al Paese] non prenderò nessuna posizione prima di aver visto il rapporto della “troika”».
I ministri delle finanze dell’Eurozona hanno messo a punto, venerdì 20 luglio, il piano di aiuti alle banche spagnole. Basterà questo per evitare il naufragio del Paese?
«E’ importante il coinvolgimento dei creditori senior delle banche, che a parere della Bce, in caso di liquidazione di una banca dovrebbe essere possibile. I risparmiatori vanno protetti, ma i creditori dovrebbero essere associati alla soluzione della crisi, per limitare l’impegno dei contribuenti, che hanno già pagato molto.
Pensa di partire serenamente per le vacanze estive?
«Non prevedo mai le mie vacanze, e parto solo per alcuni giorni. Una cosa è certa: non andrò in Polinesia. E’ troppo distante».
Dunque l’euro è sempre in pericolo?
«No, assolutamente no. Alcuni analisti prefigurano scenari di esplosione dell’Eurozona; ma chi lo fa disconosce il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito in quest’Unione, così come il sostegno degli europei. L’euro è irreversibile!».
Copyright Le Monde Traduzione di Elisabetta Horvat
La repubblica 22.07.12
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“Che cosa fare per difendere l’Italia”, di MARIO CALABRESI
Improvvisamente la primavera del 2013 sembra lontanissima. Troppo lontana per sopportare incertezza, speculazione, scontri politici. Così lontana da giustificare la rottura di un tabù: le elezioni anticipate a novembre.
Quei nove mesi che ci separano dalla fine della Legislatura li abbiamo fin qui considerati un problema perché troppo limitati e vicini per un proficuo programma di risanamento e di riforme: la sensazione prevalente era che avremmo avuto bisogno di più tempo per rimetterci in piedi.
La presenza di Mario Monti, si ragionava in Italia come all’estero, era uno scudo contro scenari catastrofici, era ed è una garanzia fino alle elezioni, ma nessuno è mai stato in grado di dire cosa sarebbe successo poi e le paure più diffuse erano proprio per questo incerto «dopo».
Insomma il nostro problema in questo 2012 è sempre stato il dopo Monti, la pagina incerta che si sarebbe aperta dopo il voto.
Oggi le cose sembrano in parte cambiate: il problema è il troppo tempo che ci separa da un chiarimento e la strada autunnale e invernale che ci porta alla primavera del 2013 appare invece come la traversata di un mare in tempesta.
Intendiamoci, in presenza di una maggioranza coesa nei suoi obiettivi e nel suo sostegno al governo, questo tempo continuerebbe ad essere poco, ma lo si potrebbe sfruttare per portare il Paese il più lontano possibile dal baratro.
La verità però è un’altra, la campagna elettorale è già cominciata con le sue divisioni, la necessità per i partiti di distinguersi, definirsi, prendere le distanze dalle politiche più impopolari, così la navigazione è diventata ancora più faticosa per il governo e il nostro spread parla chiaramente anche di questo.
La prima telefonata che ho ricevuto il giorno in cui è uscita la notizia del ritorno in campo di Silvio Berlusconi è stata di Hugo Dixon, fondatore di Reuters Breakingviews e uno dei più influenti analisti economico-finanziari inglesi: mi chiedeva se fosse vero e mi spiegava che questo avrebbe aumentato le fibrillazioni, le paure e le incomprensioni con gli investitori internazionali. Le frasi poi su un ritorno alla lira, così come i mille distinguo emersi a sinistra, hanno risvegliato stereotipi e fantasmi sull’affidabilità dell’Italia.
Il fattore incertezza pesa in modo consistente sulla valutazione che viene fatta da chi investe e contribuisce a formare l’eccessivo interesse che dobbiamo pagare per riuscire a piazzare il nostro debito. Lo ha sottolineato, tra le polemiche, l’agenzia di rating Moody’s e ce lo hanno confermato gli oltre trenta corrispondenti stranieri che sono venuti alla Stampa all’inizio della settimana per raccontarci quanto sia difficile comprendere noi italiani e il nostro sistema politico in questo momento.
E’ inutile e perfino un po’ ridicolo prendersela con gli stranieri, gridare ai complotti e ergersi a paladini dell’orgoglio nazionale di fronte alle critiche, sarebbe meglio – lo dice con chiarezza in queste pagine anche l’ex direttore dell’ Economist Bill Emmott – se ognuno di noi si facesse una domanda semplice: «Ma io presterei i miei soldi all’Italia? Rischierei i miei risparmi, i miei capitali o la mia pensione mettendomi nelle mani di una classe politica che non mi offre garanzie per il futuro?». Penso che la risposta sarebbe univoca. Anche i mercati ragionano così.
Per questo, per non passare nove mesi in balia dell’incertezza e della speculazione, da alcuni giorni si è cominciato a ragionare, nei palazzi del governo e nei colloqui tra il premier e i partiti, dell’ipotesi di elezioni anticipate. All’inizio di novembre. Elezioni che imporrebbero un chiarimento in tempi brevi e permetterebbero poi di impostare programmi di legislatura e di largo respiro. La cosa circolava da un paio di giorni ed è stata raccontata ieri dal Corriere della Sera , che per primo ha affacciato l’ipotesi di una crisi pilotata per andare al voto anticipato. Ieri sera è arrivata, comprensibilmente, una smentita da Palazzo Chigi, ma il ragionamento esiste e ha un fondamento.
L’idea non sarebbe quella di mettere fine ad un’esperienza di governo o di considerarla come una sconfitta bensì di vederla come un’opportunità, un’occasione che si può prendere in considerazione nelle strategie di difesa dell’Italia.
Certo, un passaggio così sarebbe possibile solo se ci fosse unità di intenti da parte delle forze politiche che formano la maggioranza di Monti e se, come ha sottolineato anche il presidente Napolitano in più occasioni, i partiti dicessero chiaramente che si impegnano anche nella prossima legislatura a continuare nella direzione del rigore e del risanamento. Di fronte ad avventurismi, nostalgie per la lira, piani fantascientifici di rilancio dell’economia basati su un aumento della spesa, ogni mossa sarebbe suicida. Ma se ci fosse una competizione leale aperta da un preambolo comune, una sorta di documento di impegno a tenere l’Italia nell’euro e ad onorare gli impegni presi, allora questa strada diventerebbe una possibilità da tenere in considerazione. Con una precondizione: una nuova legge elettorale varata al più presto, perché gli italiani non meritano di tornare alle urne con quella attuale.
Tutto ciò richiederebbe maturità politica, vista lunga, l’abbandono di tatticismi e egoismi di giornata. Quelle stesse caratteristiche che dovrebbero spingere le forze politiche alla massima serietà di fronte ai rischi che stiamo correndo. Se non vogliamo svegliarci a Madrid o ad Atene, c’è da essere onesti e conseguenti: nove mesi di battaglia elettorale sulla pelle dell’Italia e degli italiani non si possono fare, o si va al voto prima o si assicura a Monti il sostegno necessario perché la nave non affondi e si possa arrivare alla prossima primavera se non sani perlomeno salvi.
La Stampa 22.0712