Un lungo abbraccio, dopo sessantasette anni, un incontro inatteso, imprevisto, quasi incredibile. Sami Modiano e Moshe Cohen fanno parte del gruppo di sopravvissuti alla distruzione della comunità ebraica dell’isola di Rodi. Senza saperlo si danno appuntamento per celebrare l’anniversario della deportazione (23 luglio 1944). Faticano a riconoscersi, sopraffatti dalla lacrime e dal tempo che li separa dall’ultimo incontro a Roma nel 1945.
I loro destini non si erano più incrociati: Modiano, dopo alcuni anni trascorsi nel Congo belga, vive oggi tra Rodi e Ostia; Cohen aveva lasciato l’Italia per combattere volontario contro gli inglesi in Medio Oriente, e dopo un periodo in Israele si è trasferito in California. Si guardano intensamente, l’occhio cade sui numeri tatuati sull’avambraccio dai nazisti nella Sauna di Birkenau nell’estate del 1944: sono divisi da 150 cifre, nella sequenza che unisce i pochi scampati alla selezione sulla rampa della morte. Erano partiti dall’isola delle rose insieme, quando la macchina della deportazione nazista si era messa in moto. Ricordano a fatica, commossi e felici di incrociare il loro cammino. I racconti sfiorano gli sguardi dei turisti che popolano la città vecchia nei pressi della Giuderia, il vecchio quartiere ebraico.
È una storia secolare quella della comunità di cui sono parte: cominciata nel XVI secolo, si interrompe il 18 luglio di sessantotto anni fa. I capifamiglia vengono arrestati dai tedeschi, con il pretesto di un controllo dei documenti, e rinchiusi nella Kommandantur, già caserma dell’Aeronautica militare italiana. Il tempo di Rodi italiana, iniziato con la guerra del 1912, si era chiuso nel 1943 con il passaggio dell’isola sotto il controllo nazista. Ma lasciamo parlare Modiano: «Il giorno dopo, il 19 luglio, chiesero a tutti i familiari di fare un fagotto con i beni di prima necessità: cibo, vestiti e oggetti di valore. Cercavano soprattutto oro. In silenzio andammo anche noi verso la caserma, mio padre Giacobbe era già lì. Restammo chiusi per alcuni giorni».
All’alba del 23 luglio 1944 ha inizio il lungo viaggio verso la fine. I numeri sono incerti, mancano riferimenti anagrafici e ricostruzioni attendibili. Dopo un breve tratto di strada fino al porto, circa duemila persone vengono stipate in quattro o cinque chiatte adibite al trasporto di animali. Un viaggio per molti insopportabile. Una prima sosta all’isola di Kos per imbarcare altri nuclei familiari, poi rotta verso il Pireo. «All’improvviso la nostra adolescenza era finita del tutto», prosegue Modiano. «Già nel 1938 ero stato espulso dalla scuola italiana in seguito all’applicazione delle leggi razziali di Mussolini. Avevo un maestro bravissimo, lo ricordo ancora con nostalgia. Il viaggio fu davvero una marcia di avvicinamento verso l’inferno. Il caldo, gli odori, i bisogni e i primi cadaveri gettati in mare».
Ad Atene il trasferimento su un treno, per molti un oggetto sconosciuto e misterioso. L’arrivo ad Auschwitz il 16 agosto. Un mese di viaggio attraverso l’Europa nel vivo della fase decisiva dell’offensiva alleata al cuore del Terzo Reich. Ebrei italiani scovati e catturati in un’isola del Dodecaneso, a ridosso della costa turca, quando già Roma era in mano agli anglo-americani e la guerra di Hitler si stava trasformando in una sconfitta, una resa incondizionata. Eppure la macchina dello sterminio non si inceppa, non conosce ostacoli, prosegue il suo cammino di morte e terrore.
Anche il viaggio dei rodioti è senza ritorno. Poche decine i sopravvissuti: 31 uomini e 120 donne ce la fanno. Per tutti loro la dolorosa ricerca dei familiari e di una patria: Rodi passa alla Grecia nel 1947, i beni dell’antica comunità si popolano di nuovi inquilini. Il ritorno alla vita è lontano dall’isola. Diverse le mete: America, Australia, Argentina, Italia, Israele, Congo o Sud Africa. Rodi rimane nel cuore di tutti, come imperativo per non dimenticare, omaggio ai tanti sommersi che non ci sono più. «È un mondo che se n’è andato in fretta, eravamo migliaia e l’isola era un luogo fantastico. Quando cammino per queste stradine nel silenzio della sera lo rivivo con dolore. Eravamo ospitali e solidali. In pochi metri vivevano ebrei, musulmani e cristiani. Si parlava ladino (la nostra lingua), turco, italiano e greco. Se penso al paradiso non riesco a trovare un’immagine migliore».
Il tempo scorre impietoso. La stele di granito nella piazza Martiron Evreon (dei martiri ebrei) recita in sei lingue «Alla memoria eterna dei 1604 ebrei di Rodi e Kos sterminati nei campi di concentramento nazisti. 23 luglio 1944». L’antica sinagoga è a pochi passi, la comunità oggi non raggiunge le trenta unità. Modiano depone un sasso in memoria della sua famiglia e di tutti gli altri: «Sono tornato vivo da quell’orrore per tutti loro, per poter raccontare a chi è venuto dopo o non credeva, per non disperdere la loro voce e la loro memoria».
La Stampa 22.07.12