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"Un Pd da Tabacci a Vendola", di Michele Prospero

Al crepuscolo della seconda Repubblica torna a riproporsi con forza il tema del partito come sbocco ad una transizione che, apertasi con il tonfo epocale dell’asse Berlusconi-Bossi, rischia di avvitarsi senza trovare approdo in un nuovo sistema. Non si esce dal pantano dell’antipolitica, egemone in questi ultimi vent’anni, evitando ancora una volta l’appuntamento con il partito. appuntamento culturale prima ancora che organizzativo: ha ragione Asor Rosa. Per sconfiggere l’antipolitica come eterna ricetta caldeggiata dai vari conservatorismi nostrani occorre, infatti, dare una rapida sepoltura alla grande illusione di rimuovere la forma partito per edificare una ragnatela di poteri personali che, messi alla prova, si rivelano incapaci di esprimere autentiche culture politiche, autorevoli classi dirigenti, un vero radicamento sociale.

Il partito è ancora oggi una sfida democratica lanciata contro i grandi poteri, non è la difesa dell’esistente (centri opachi di comando con agganci nel cinico mondo degli affari e dei media), alla quale semmai si aggrappano con le unghie tutti i potentati che invocano ancora l’alluvione di micro partiti personali. Il nuovo non risiede certo nella venerazione mistica e primitiva del carisma, fatta dagli affranti Galli Della Loggia e Panebianco, sentinelle provinciali dello status quo antipolitico, andato per sempre alla rovina. Il nuovo è la (ri)costruzione di soggetti politici organizzati, con un legame più solido con la società e con canali permanenti di partecipazione, in grado di attrarre i soggetti contagiati dal pathos della politica ben oltre le improvvise fiammate elettorali.

Fino a qualche settimana fa, quando ancora Maroni non aveva rimosso la spettrale immagine di Bossi dalla Lega, il Pd era l’unico partito impersonale esistente, la sola formazione cioè in cui l’organizzazione vantasse una durata più lunga di quella del suo leader. Un partito solo, immerso però in un minaccioso oceano di partiti personali, ha il compito di disegnare le tappe per un approdo non traumatico ad un diverso sistema. La decisione di convocare le primarie aperte di coalizione contiene in nuce il rischio, evidenziato da Asor Rosa, di tornare a giocare con le logore vecchie carte (un fragile soggetto presidenzializzato, strumentale all’ascesa del leader che si afferma attraverso i gazebo) in un contesto mutato che reclama una ristrutturazione del sistema di partito nel solco delle linee divisorie europee. Questa insidia di un ripescaggio dell’antico (primato dell’elettore indistinto sulla membership più attiva) può essere controllata solo avvalendosi dell’invenzione organizzativa (si evoca non a caso oltre all’albo degli elettori di sinistra anche il principio di maggioranza per scongiurare le fughe che caratterizzarono l’Unione) e dalla coerenza della analisi politica (ferma nel proposito di sostituire l’asse destra-sinistra a quello del tutto fuorviante politica-antipolitica).
Sembra al momento che attorno alla proposta del Pd, con le mosse di Vendola e Tabacci, si venga definendo un’area politico-culturale diversificata, ma omogenea almeno nelle sue linee di fondo, che prelude a comportamenti unitari, in aula e non solo. Andrebbe nondimeno evitato l’errore, piuttosto frequente in questi anni, di pensare che l’itinerario di un soggetto politico unitario possa scaturire solo dalle confluenze pur significative registrate sul piano delle mutevoli aggregazioni elettorali. Un grande partito popolare e riformatore, come lo definisce Asor Rosa, che sia un deposito di storia e un laboratorio di un nuovo progetto, non può che maturare nella dimensione europea.

Nel tempo storico attuale, o i partiti transnazionali in (troppo) lenta gestazione definiscono l’ossatura di una vera Europa politica, oppure l’Europa rimane una evanescente espressione ingannevole, dentro cui covano delle vistose asimmetrie di potenza tra gli Stati, che non sono certo compatibili con uno spazio politico-costituzionale che dovrebbe essere tendenzialmente unitario.
La principale prospettiva è quindi oggi quella di inaugurare il tempo dei partiti metanazionali richiesti per l’allestimento di un’Europa politica senza di cui i Paesi periferici sono destinati al tramonto. È dentro questo faticoso processo (da cui dipende anche la salvezza dell’Italia) che va collocato il lavoro necessario per il consolidamento e l’espansione del Pd come originale condensato delle culture critiche. I partiti come costruttori d’Europa hanno dinanzi una missione storico-politica che impone loro degli ingenti investimenti in cultura, in organizzazione, in radicamento nei laceranti conflitti sociali dell’epoca liberista. Non si tratta di spingere le diverse componenti del progressismo italiano ad abbandonarsi tra le braccia delle idealità socialiste (quali? Sono così diversi i paradigmi dei laburisti inglesi e dei socialisti francesi, dei socialisti spagnoli e di quelli tedeschi). Si può certo andare oltre il socialismo europeo così come è ora configurato per ospitare altre letture critiche del moderno, ma non si procede nella costruzione di un’Europa politica senza il socialismo europeo, inteso come un polo politico plurale e ricco di varianti specifiche che condivide un’idea di città solidale (lavoro, diritti, cittadinanza) nella quale possono ben rispecchiarsi anche altre sensibilità, come quelle di una fervida coscienza religiosa.

Questi temi non emergono a sufficienza nel dibattito pubblico perché l’Italia pare oggi stritolata da un antico riflesso condizionato che la sospinge verso la eterna polarità politica-antipolitica, così agognata dalla restaurazione berlusconiana del partito personale, dalle esortazioni del Corriere per partiti di capi carismatici con sherpa a loro contorno, dall’autorappresentazione con liste fai da te promosse da manager, tecnici, magistrati, comici, scrittori. Gli appuntamenti europei si giocano su ben altre tensioni identitarie (destra-sinistra, capitale-lavoro) assai distanti dalla triste eccezione italiana che, sulle stridule corde dell’antipolitica ringalluzzita ad arte, vede ogni volta maturare la mala pianta del populismo distruttivo.

l’Unità 21.07.12

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