Antonio Di Pietro sembra ormai arrivato al punto di non ritorno. L’attacco al Quirinale ha superato infatti i confini, anche i più duri, della critica politica ed è diventato una vera e propria aggressione, spesso con toni e argomenti che ricordano molto da vicino le vergognose e devastanti campagne berlusconiane degli anni passati.
Il problema serio è che in gioco non c’è la persona di Giorgio Napolitano, un uomo che ha comunque fatto della correttezza e del rispetto delle istituzioni il centro della propria vita politica e parlamentare. Qui è in gioco la Costituzione, il ruolo del Quirinale e le sue prerogative, il formale rispetto della separazione dei poteri: insomma, i principi fondativi della democrazia e dello Stato di diritto. Napolitano infatti, come abbiamo titolato qualche giorno fa in prima pagina, «difende il Quirinale». Ed è quanto di più lontano ci sia dalla cura, in altri luoghi esercitata in modo disinvolto, di interessi personali. Ecco, l’attacco di Di Pietro rischia di trasformarsi in un attacco al cuore del sistema costituzionale.
Gli argomenti usati per tentare di infangare il Capo dello Stato sono del tutto inconsistenti. Come si fa a sostenere che l’iniziativa di Napolitano è un tentativo di imporre una «ragion di Stato» che impedisce di «accertare la verità»? Persino i magistrati di Palermo, nei confronti dei quali è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale per le intercettazioni dei colloqui con Mancino, hanno ritenuto legittima quella scelta. Il procuratore Francesco Messineo, proprio in un’intervista a l’Unità, ha sostenuto che è un «mezzo previsto dall’ordinamento e del tutto corretto», che i pm non hanno «alcuna tesi preconcetta» e sono «perfettamente aperti a recepire le indicazioni». Non solo: ha aggiunto che quella decisione del Quirinale non «collide con l’indagine che può continuare tranquillamente». E allora dov’è l’ostacolo all’accertamento della verità? E dove il «tradimento della Costituzione» da parte del Capo dello Stato di cui parla Di Pietro? E dove sono gli elementi per dire “se fossi pm chiederei una condanna politica”, come fa oggi sul Fatto dimenticando che dai pm non ci si aspettano condanne politiche?
Napolitano ha semplicemente posto alla Consulta la seguente domanda: è legittimo intercettare il capo dello Stato visto che c’è una legge che lo vieta e che l’articolo 90 della Costituzione prevede che egli «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione»? È a questo che punta Antonio Di Pietro, cioè mettere addirittura il presidente in stato d’accusa?
Da qualunque punto lo si guardi, insomma, il comportamento del leader Idv non è soltanto ingiustificato ma è fuori dallo spirito di responsabilità nazionale e rischia di danneggiare le istituzioni democratiche. Il motivo di questa scelta è politicamente abbastanza chiaro: un tentativo, per la verità un po’ maldestro, di ottenere più visibilità e di occupare quello spazio che finora era proprietà esclusiva di Grillo. Chissà se questo consentirà da Di Pietro di raccattare qualche voto in più. Sicuramente rischia di confinarlo, se non si fermerà in tempo, ai margini dello spazio politico, in un ruolo di opposizione antisistema che è incompatibile con qualsiasi impegno di governo. Se si guarda al 2013 è ormai del tutto evidente che l’Idv sta tagliando tutti i ponti nei confronti di qualsiasi alleanza. Quale compatibilità ci può mai essere, infatti, tra chi mena fendenti contro le istituzioni e chi vuole ricostruire il Paese sventolando la bandiera della Costituzione?
L’Unità 21.07.12