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"Stralciare il comparto ricerca dalla spending review" di Roberto Gualtieri

Fin dal 2008 le classi dirigenti più avvedute dei maggiori paesi mondiali si sono date l’obiettivo di trovare risorse da investire nella formazione e nella ricerca come risposta a breve e a lungo termine alla crisi economica. Per usare le parole del ministro statunitense dell’istruzione, ci si è impegnati per «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare». L’Italia ha rappresentato un’eccezione a questa strategia generale: fin dal 2005 infatti il nostro Paese ha avviato una lunga opera di ridimensionamento delle risorse pubbliche per la formazione e la ricerca. La decisione è stata giustificata con la teoria del «secchio bucato»: l’inutilità cioè di risorse impiegate in un presunto sistema inefficiente, destinato inevitabilmente a disperderle in sprechi. Questa linea ha caratterizzato governi di opposti schieramenti, sia pure con una differenza fondamentale.
Negli anni del centro-sinistra, tra il 2006 e il 2008, i tagli delle risorse alla scuola, all’università e alla ricerca sono stati parte di una generale strategia di diminuzione del debito pubblico; in quelli del centro-destra invece l’intero comparto ha subìto una fortissima contrazione (la più rilevante dell’intera storia unitaria), mentre il resto della spesa pubblica si è ampliato: si è compiuto in questo modo un trasferimento di risorse pubbliche verso altri settori. Quei tagli si sono rivelati un errore grave: sono stati fatti con l’intento di concentrare la spesa sui segmenti qualitativamente migliori del sistema (di «chiudere i buchi del secchio»). Il risultato è stato il trasferimento di risorse dal Sud al Nord della penisola, dalla provincia ai maggiori centri urbani, dai ceti sociali più deboli a quelli più forti. La teoria del secchio bucato è semplicemente sbagliata. Ora c’è un fatto nuovo. L’attuale governo tecnico ha posto le premesse per un ripensamento di questa strategia: i provvedimenti di spesa pubblica sono stati preceduti da un rapporto di analisi sull’andamento della spesa negli ultimi 15 anni (il documento illustrato dal ministro Piero Giarda, nel maggio scorso), rapporto in cui la storia che abbiamo fin qui riassunto è esposta lucidamente nei suoi elementi salienti. Al momento delle decisioni, ne è scaturito però un risultato insoddisfacente: è vero che per la prima volta da sette anni una manovra di finanza pubblica non prevede riduzioni al comparto della scuola e dell’università (i 200 milioni di taglio al sistema universitario, inizialmente previsti, sono stati poi cancellati per effetto dei numerosi interventi contrari, tra cui quelli del Pd e della conferenza dei rettori, anche sull’«Unità»). Dall’altra parte però sono proposti tagli molto forti agli enti di ricerca: un provvedimento ingiustificato perché interviene su alcune delle nostre istituzioni migliori, in cui la presenza di un margine finanziario operativo eccedente al mero pagamento degli stipendi è ciò che consente all’Italia di esprimersi ancora in alcuni settori di punta della scienza. Siamo arrivati al paradosso grottesco dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, elogiato al mattino per le sue eccezionali scoperte svolte al Cern in questi giorni, e oggetto la sera stessa del taglio più pesante tra quelli programmati agli enti di ricerca.

È giunto il momento che le forze politiche di maggioranza intervengano per superare l’ambiguità e aiutare il governo a compiere la svolta. Il Pd in particolare può farsi promotore presso il governo di tre azioni: primo, stralciare l’intero comparto della formazione e della ricerca dai provvedimenti di riduzione della spesa (come giustamente è stato proposto in questi giorni dai democratici di Roma). Secondo, impedire l’innalzamento della contribuzione studentesca negli atenei (e dare quindi corso all’ordine del giorno presentato dai Giovani democratici e approvato nell’assemblea nazionale del Pd lo scorso 14 luglio).
Infine, aiutare il governo a trovare risorse nuove da investire sulla scuola e sull’università, risorse che possano «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare», e consentirci così pienamente di fare la nostra parte per superare questa crisi.

L’Unità 19.07.12

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