attualità, politica italiana

"Silvio e Marcello servi-padroni", di Francesco Merlo

Silvio gli fa il baciamani e lo chiama don Dell’Utro, dove la o che arrotonda e deride al tempo stesso enfatizza e onora il carisma del mistero. Insomma lo svuota e lo carica: lo svuota di mafia per caricarlo di mafiosaggine, ammette e allontana: non delinquente ma uomo di rispetto. Lo stesso uomo — e Berlusconi non capisce — che si rifiuta di andare in tv dai giornalisti compiacenti. «Io — dice — vado da Santoro», ed è vero. Perciò Berlusconi gli bacia la mano, perché non cede alle lusinghe, lo riconosce come duro. Ed è una pantomima che piace ad entrambi, e infatti la raccontano loro stessi. «Ma tu sei solo un tessera P2 — ha pubblicamente detto Dell’Utri a Berlusconi — io invece sono arrivato alla P4». Forse neppure loro sanno chi dei due è il secchio e chi la corda, chi è il doppio e chi è il sosia di chi. Sanno però che l’uno è l’autenticità dell’altro. Nella storia del berlusconismo, inteso come lunghissima amicizia d’affari che poi diventa politica, Berlusconi e Dell’Utri sono anche la finta ingenuità e l’esibita saputaggine, sono il buono e il cattivo (lasciando la parte del brutto a Confalonieri).
Questa ambiguità, che fa di Dell’Utri l’altra faccia di Berlusconi, risale almeno al 1974, alla mitica Immobiliare San Martino, alla Edilnord, alla Fininvest, a Publitalia, a Forza Italia. È una storia che è stata molto raccontata. Ma poco è stato detto su questa ambiguità che è maligna ma sincera. Si sa per esempio che in quel 1974 spuntò per la prima volta il nome di un boss protettore, Stefano Bontade. E forse è una leggenda, come ripete Dell’Utri, ma una cosa è sicura: da quel momento l’ex impiegato di banca palermitano portò in dote a Berlusconi «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». E infatti nelle foto d’epoca Berlusconi esibiva ancora la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori. Oggi si sa che Dell’Utri gliela sostituì con la protezione di uno stalliere mafioso e maestro che divenne il precettore di Piersilvio. Ebbene, a quello stesso Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. Eppure con Dell’Utri, Berlusconi si è sempre comportato come un faraone, lo ha mille volte ricoperto d’oro, e ben prima di quei 21 milioni, sui quali ora indaga la Procura di Palermo, con cui gli ha comprato una villa che ne valeva 9. Berlusconi è una cassaforte che ogni tanto, ma sempre inaspettatamente, si apre per lui: donazioni, assegni circolari, titoli. Nel solo 1993 gli “emolumenti” furono di circa ottocento milioni di lire, e poi regali, ora di duecento milioni e ora di settecento milioni, «e le cifre non erano sempre così importanti, qualche volta mi dava quaranta o cinquanta milioni, dipendeva credo dalle sue disponibilità ». E ogni tanto «mi arrivava una busta anonima in ufficio con dentro delle banconote». E la casa? «Un giorno mi disse “vedo che ci stai bene, tienila, è tua”». Berlusconi, come spiegò Dell’Utri al giudice che se ne meravigliava, è fatto così: gli piace pagare, «ma a sorpresa». Ecco perché Dell’Utri può dire che «non suda», ma aggiungere — con lo stesso gergo, quello dei sensali palermitani — che «offre la minna», porge la mammella da latte.
E infatti la loro amicizia è un fiume di danaro che Dell’Utri ricompensa con la saggezza, con la costruzione prima di Publitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana»: Berlusconi come grande timoniere, il partito come marea montante, e la famiglia da Marina a Barbara, come cupola. E «non fedeltà, ma devozione» predicava Dell’Utri, che è la stessa qualità dello stalliere Mangano, il quale, condannato per mafia e per omicidio, morì in galera per tumore al colon. Dell’Utri è convinto che lo stalliere di Arcore in carcere venne trattato con una severità che rasentava la spietatezza perché lo si voleva convincere ad accusare Berlusconi o lo stesso Dell’Utri. E invece ogni volta che lo interrogavano Mangano ripeteva che Berlusconi era «una persona per bene». Perciò Dell’Utri, come si sa, gli tributò un monumento postumo, un epicedio, definendolo eroe. Per tutti gli altri è il martire dell’omertà, il santo della mafia.
In realtà nel soprannome «stalliere di Arcore » c’è il dio nascosto non solo della vita e della morte di Vittorio Mangano ma anche della vita di Marcello Dell’Utri, è il codice del suo destino, l’idea sulla quale stanno oggi lavorando i giudici di Palermo. Lo stalliere che Dell’Utri portò ad Arcore era già la mafia che si metteva a sua disposizione, perché Dell’utri è «il paesano che ci consegnerà il paese» dicono i pentiti. E la mafia è la stessa che nel 1992 tratterà con lo Stato, l’onorata società che, ucciso Lima, trovò in Dell’Utri il suo gran visir. Vero, falso? Certo è più di un cattivo pensiero e di una malizia. E’ il sospetto di un sodalizio criminale, un’ipotesi di reato che prima o poi arriverà al giudizio. Indizi ce ne sono, sulle prove si vedrà.
E però tutti gli italiani sanno che le vite di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi sono così intrecciate da far pensare appunto alla corda e al secchio, a un unico destino, a un comune pozzo nero. I due hanno percorso insieme le strade tortuose del successo economico, dall’Immobiliare San Martino sino ad oggi, con storie terribili e invenzioni economiche e politiche brillanti e feroci. Insieme hanno fondato Forza Italia, hanno governato e hanno vinto, poi perso le elezioni, poi vinto, parafrasando Montale «hanno salito un milione di scalini dandosi il braccio». Ed è ancora insieme che si dichiarano bersagli di «un giustizialismo politico barbaro». Con la differenza che Dell’Utri civetta con la propria colpevolezza, da duro appunto: «Persino io guardando me stesso dall’esterno mi riconosco come mafioso… E se i mafiosi non dicono che io e Silvio andavamo per mafiosi cosa devo pensare? Che sono persone serie? «Berlusconi invece fa lo spaventato: «E’ ripartito a Palermo il solito circo giudiziario, fischiano contro di me le pallottole delle Procure di regime».
Dell’Utri e Berlusconi sono il reciproco “energheion” direbbero i greci, la risorsa, il deposito di carburante di cui l’uno nutre l’atro. Il siciliano è lo spavento della realtà e il brianzolo è il sorriso volatile dell’etere. Cesare Garboli sintetizzava così: «Li guardi e non capisci chi dei due è il servo e chi il padrone ». Il vero gemello di Marcello Dell’Utri non è infatti il fratello monozigote Alberto, ma Silvio che solo da lui si fa rimproverare e persino strapazzare. Il siciliano alza al cielo le mani giunte e comincia sempre nello stesso modo: «Silvio, non è così». Di Lavitola per esempio gli scandì in faccia: «È cosa e nenti, è una cosa di niente». E le donne di Arcore «sono solo vastasate» cioè volgarità. E la gente nova, dalla Gelmini alla Santanché, «non è buona manco per la schiuma». Silvio invece gli rinfaccia i soldi sprecati per «quel tuo Rotary di vecchi» che è fatto di bibliofilia, di finti diari di Mussolini, delle pagine mancanti di Pasolini, di circoli del buon governo e persino della “Silvio Berlusconi editore” che permette a Dell’Utri di pubblicare La Biblioteca dell’Utopia: Giordano Bruno e Francesco Bacone, Schumpeter, Pico Della Mirandola e, fiore all’occhiello, Il Manifesto del partito comunista con la prefazione che Lucio Colletti gli scrisse poco prima di morire. «Lei quanto spende annualmente in questo tipo di acquisti?» gli chiese il giudice nell’interrogatorio del 1996: «Siamo sull’ordine di decine di milioni, qualche decina di milioni ». Dell’Utri, che è sempre in bolletta, dice a Berlusconi che lo spreco vero «un peccato mortale» è quella Mondadori che pubblica Alfano, Lupi, Bondi, Sacconi… e, ultimo arrivato, Cicchitto, con tanto di presentazione a Roma di Massimo D’Alema. Per Dell’Utri è «come mettere sottosopra la Gioconda», quasi peggio delle iniziative giudiziarie di Ingroia al quale contrappone quello che chiama «lo stile» dello stalliere di Arcore. Dice Dell’Utri: «Chiunque capisce che l’accusa contro di me travolgerebbe Berlusconi ». E non è la minaccia di Romolo al fratello Remo ma la constatazione banale che non ce l’ha fatta a mettete in piedi quella società di ottimati, custodita dai suoi Contestabile, Lino Jannuzzi, i famosi professori, Gianni Baget Bozzo, Vittorio Sgarbi, un gruppetto di giornalisti fiduciosi nella rivoluzione liberale, sui quali è meglio stendere un pietoso velo, la covata di Publitalia, Miccichè e Galan, Massimo De Caro, il famigerato direttore della biblioteca dei Girolamini… Avevano il compito di reclutare soldati della cultura e intanto riscrivere la storia, addomesticare la natura dei tribunali, riformare la giustizia e la Costituzione, liberalizzare l’economia, togliere tasse e manette, lacci e laccioli, domare i pubblici ministeri, abolire il 41 bis, restituire l’onore a Mangano… Tra le macerie di questo progetto è rimasto solo il pozzo nero, con una corda e un secchio. Tiri la corda Dell’Utri e sale il secchio Berlusconi, Un secchio, va da sé, pieno di soldi.

La Repubblica 19.07.12

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“Gli ho costruito l’impero Silvio forse mi deve altri soldi ma non l’ho mai ricattato”, di Alessandra Ziniti

Senatore Dell’Utri, i pm dicono che Berlusconi le ha girato decine di milioni di euro negli ultimi dieci anni. Perché mai? «Saranno pure fatti miei, o no? Ammesso e non concesso che sia vero, a chi interessa? Questa è la solita morbosa curiosità di questi pm malati, sempre voler sapere, chi come, quando, perchè…».
Veramente qui si ipotizza che Berlusconi abbia potuto pagare così il suo silenzio sugli affari con Cosa nostra. Così nasce l’accusa di estorsione.
«Io non ho mai ricattato nessuno, meno che mai il mio amico Silvio. Io ho costruito un impero per Berlusconi e forse di soldi me ne deve ancora…».
Torna a Palermo nel giorno sbagliato Marcello Dell’Utri e tutto avrebbe immaginato tranne che ritrovarsi al centro di una nuova indagine, accusato di estorsione ai danni dell’amico di sempre Silvio Berlusconi, proprio in concomitanza con l’avvio del nuovo processo d’appello per concorso esterno in associazione mafiosa dopo l’annullamento della condanna da parte della Cassazione. Ironizza su tutto, risponde intercalando parolacce ad espressioni paradossali, cita Platone e Montale. L’unico momento in cui si fa serio e cambia espressione in volto è quando ricorda il contributo che ha dato alla costruzione della fortuna del Cavaliere.
Sono tanti questi soldi, però. Solo per la villa sul lago di Como venti milioni di euro, e proprio alla vigilia del verdetto della Cassazione che lei ha atteso all’estero. Più tutti i bonifici documentati dalla Guardia di Finanza. Ammetterà che i sospetti dei pm di Palermo hanno qualche fondamento.
«Nessuno. Qui sono pazzi, non capiscono un cazzo. La vendita della villa non c’entra nulla con la sentenza della Cassazione. Quella villa era in vendita da due anni e il suo valore è di 30 milioni di euro. Io a Berlusconi gliel’ho data a 20, gli ho fatto un regalo. La verità è che qui vivono in un altro mondo. Io ogni volta che vengo qui penso di essere un’altra persona e questo sdoppiamento di personalità è quello che mi salva perché se pensassi di essere veramente il Marcello Dell’Utri che loro vorrebbero che io fossi ci sarebbe da spararsi. Il problema è che qui non si finisce mai».
Torniamo ai suoi rapporti con Berlusconi. Anche nella sentenza della Cassazione è definito una vittima.
«È vittima? E perché non denuncia? L’accusa di estorsione è una cosa ridicola, senza senso, frutto di fanatismo e prevenzione. Io non ho mai ricattato nessuno. Forse mia moglie mi ricatta la mattina quando mi chiede “piccioli”? Quest’indagine nasce solo dall’annuncio del ritorno in campo di Berlusconi. Mica penserà che è un caso, la solita coincidenza?. Questo è un processo politico e c’è poco altro da aggiungere».
Il solito complotto dei pm per fermare Berlusconi? A proposito, lei è d’accordo sul suo ritorno in campo, vi siete consultati?
«Doveva farlo, questo è sicuro. Quanto a consultarci, io e Berlusconi è meglio che non parliamo più niente, meglio che parliamo di donne…».
Qualche affare in corso sembra che ce l’abbiate ancora, però. Ma lei che ne ha fatto di tutti questi soldi?
«Li ho spesi. Io ho bisogno di soldi, di tanti soldi. Ho un sacco di spese, di debiti, ho i mutui da pagare. Ho i libri, la mia passione, che costano un sacco di soldi».
E lo fa con i soldi di Berlusconi?
«Invidia, solo invidia».
Ora cosa si aspetta da questa inchiesta?
«Guardi, lo scriva pure, non me ne frega un cazzo, mi manca solo l’accusa di pedofilia. Ho il mio processo a cui pensare anche se non credo che verrò più. Questa corte sembra fatta da persone serie e io, nonostante tutto, nonostante i 18 anni passati ad andare e venire da questo palazzo, ho ancora fiducia nella giustizia. Sono malato, no? Forse sono io da ricoverare… Insieme ad Ingroia, però, perché i pazzi siamo due. Sa qual è il vero scandalo qui?».
No, mi dica.
«Che sono passati vent’anni e non ci sanno dire come sono andate le cose nel ‘92, chi ha ammazzato Falcone e Borsellino. Siamo stati io e Berlusconi? O magari Mancino? Si occupino di questo invece di perdere tempo o di ricicciare i miei rapporti con Mangano».
Un mafioso. Sempre dell’idea che sia un eroe?
«Lo ridico fino alla morte, Mangano non è un eroe, è il mio eroe. Tutta questa polemica inutile: invece di definire eroe Borsellino, chiamo eroe Mangano. Mangano è il mio di eroe, ha pagato per non aver ceduto al ricatto di accusare me e Berlusconi. Adesso devo andare…».
È l’una e mezza. Fuori dal palazzo di giustizia Dell’Utri si guarda attorno quasi spaesato. «Ma come si fa da qui? Non ho più la scorta e non sono più abituato ».
Non ha più la scorta? E da quando?
«Dal primo luglio, dopo tredici anni. Ma io sono d’accordo, era inutile e anche fastidiosa. Non la volevo e me l’hanno sempre imposta perché ero in una lista di persone che le Br volevano ammazzare. Chiamerò un taxi. Come devo dire? Una macchina al “palazzo dell’ingiustizia”?».
Prima di entrare in macchina, il senatore non rinuncia ad un paio delle sue dotte citazioni.
«Primo libro di Platone, come diceva Polemarco, la giustizia è un’arte per aiutare gli amici e perseguitare i nemici. Ma l’importante è che io stia bene in salute. E per il futuro, come dice Montale, “un imprevisto è la sola nostra speranza”».

La Repubblica 19.07.12

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“Berlusconi, ecco i bonifici sospetti: in 10 anni 40 milioni per Dell’Utri”, di Guido Ruotolo

Che clima di tensione si respira a Palermo, in questa vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio. Le polemiche con il Quirinale, l’inchiesta sulla trattativa e, adesso, «la decisione di Silvio Berlusconi di rompere unilateralmente la trattativa in corso, facendo uscire la notizia che non si è presentato in Procura, dove era stato convocato come testimone».

Ecco, il clima che si respira a Palermo è esattamente questo: «Strano che l’ex presidente del Consiglio annunci la sua candidatura a premier il giorno dopo aver ricevuto la convocazione a Palermo». Anche se sono battute raccolte nei corridoi della Procura, rendono bene il clima e soprattutto delineano già i contorni di ciò che ci aspetta. Ma torniamo all’inchiesta svelata, secondo la Procura di Palermo, dagli stessi collaboratori dell’ex presidente del Consiglio. Perché in dieci anni dai conti correnti co-firmati da Silvio Berlusconi e da sua figlia Marina sono usciti quaranta e passa milioni di euro finiti sui conti correnti di Marcello Dell’Utri e di sua moglie?

Sono queste le domande che si pone la procura di Palermo che ha deciso di indagare il senatore del Pdl per estorsione. Eh già, perché il sospetto è che Dell’Utri abbia estorto quei soldi al suo «principale», sodale, amico di sempre Silvio Berlusconi.

Ma perché il giorno prima della sentenza della Corte di Cassazione che avrebbe potuto confermare la condanna a 7 anni di carcere per mafia del senatore palermitano, nello studio di un notaio milanese si perfeziona il passaggio di proprietà della villa di Dell’Utri a Berlusconi? Venti milioni di euro per una villa che ne vale la metà? Per dirla in breve, la Procura di Palermo sospetta che quei soldi siano una sorta di liquidazione per i servigi resi da Dell’Utri, attraverso Cosa Nostra, al Cavaliere.

È vero, su alcuni bonifici Silvio e Marina Berlusconi scrivono che la causale è un «prestito», ma secondo il lavoro di verifica della Guardia di finanza, quei soldi due bonifici di 362.000 e 775.000 euro del 10 aprile del 2003 – non sarebbero mai tornati indietro. Troppe operazioni «sospette» portano la stessa procura di Roma che indaga sulla P3 a inviare a Palermo per competenza la documentazione sui bonifici che padre e figlia, Silvio e Marina, indirizzano su conti correnti intestati al senatore e alla moglie.

Il 10 aprile del 2003, i due bonifici per un 1.137.000 euro; il 22 maggio del 2008 da un conto di Silvio Berlusconi presso il Monte dei Paschi di Siena parte un bonifico di 1.500.000 euro, il 25 febbraio del 2011 un altro milione di euro, l’11 marzo del 2011 altri 7 milioni. E poi, l’8 marzo scorso, la cessione della villa sul lago di Como: 20 milioni e 970 mila euro. Un prezzo sovrastimato di almeno il doppio. Una perizia del 2004 fissava il valore della villa in 9 milioni e 300 mila euro. Da quello che era emerso nell’inchiesta sulla P3 fatta dalla Procura di Roma, nel 2011 Silvio Berlusconi aveva versato 9,5 milioni di euro per ristrutturare la villa. Un anno dopo, quella villa se la compra per il doppio del suo valore.

Irritazione, in Procura, per la fuga di notizie. Silvio Berlusconi aveva fatto sapere che per lunedì 16 luglio, giorno di convocazione a Palermo, era impegnato. Sua figlia Marina si sarebbe trovata all’estero (e Marina ha confermato l’appuntamento per mercoledì prossimo). Nella lettera spedita dall’avvocato dell’ex premier, Niccolò Ghedini, si spiega che Berlusconi preferirebbe essere sentito a Roma: «Sarebbe altresì auspicabile che le testimonianze, per ovvie ed evidenti ragioni di riservatezza, che certamente governano gli intendimenti anche di codesto Ufficio, non venissero assunte presso il Tribunale di Palermo, bensì presso sede diversa».

La Procura di Palermo aspetta un segnale da Berlusconi. Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio si nega ai magistrati antimafia. Successe già il 26 novembre del 2002. Allora, lo stesso procuratore aggiunto Antonio Ingroia si recò a Roma, a Palazzo Chigi. Un viaggio a vuoto perché Berlusconi si rifiutò di rispondere alle domande.

La Stampa 19.07.12