Nessuno, tra i politici italiani, e in particolare tra quanti sostengono Monti, sembra propenso a pensare che il declassamento notificato venerdì da Moody’s sia in connessione con l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alla guida dell’Italia.
Ritorno confermato da Alfano due giorni prima, ma da tempo evocato, invocato, dai fan dell’ex premier sui siti web. C’è stata invece un’unanime insurrezione, molto patriottica e risentita, e l’inaffidabilità delle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) è stata non senza valide ragioni denunciata: le stesse agenzie che sono all’origine della crisi scoppiata in America nel 2007, continuano infatti a dettar legge, fidando nell’oblio di cittadini, governi, istituzioni internazionali. Ciononostante, quel che veramente conta resta nell’ombra: non in Italia, ma ovunque in Europa, il verdetto di Moody’s (che pure non nomina il fondatore di Forza Italia) viene d’istinto associato all’infida maggioranza di Monti, e più specialmente alla decisione di Berlusconi di tentare per la sesta volta la scalata del potere: per ridiventare premier o salire al Quirinale, ancora non è chiaro. Monti sarebbe insomma un interludio, non l’inizio di una rifondazione della Repubblica.
È quanto dicono le radio francesi, gli editoriali sulla che senza infingimenti adombra la possibilità di una ricomparsa in Italia del Der Pate, Teil IV,
il Padrino parte IV: il nomignolo, si aggiunge, è da anni diffuso in Europa. Accade spesso che lo sguardo esterno dica verità sgradevoli a Paesi che da soli non osano guardarsi allo specchio: è successo nell’Italia postmussoliniana come nella Francia dopo il fascismo di Pétain. La Sueddeutsche chiede che l’Europa lanci «un segnale chiaro: con Berlusconi il Paese si riavvicinerà al baratro», e non a causa dei festini a Arcore. Il commentatore Stefan Ulrich non sarà probabilmente ascoltato, perché purtroppo così stanno le cose nell’Europa della moneta unica: paradossalmente i governi autoritari godono di margini più ampi di libertà, da quando le loro economie sono tutelate da Bruxelles.
I parametri finanziari vengono prima della democrazia. L’Unione s’allarma assai più del bilancio greco che dello Stato di diritto calpestato in Ungheria, Romania o Italia, ottusamente trascurando i costi immensi della non-democrazia, della corruzione, dell’impunità, della consegna alle mafie di territori e attività economiche. Resta lo sguardo severo, molto più del nostro, che da fuori cade su di noi. Si pensi al candore con cui l’economista Nouriel Roubini dice, a Eugenio Occorsio su la Repubblica del 15 luglio: «Sicuramente Monti ha molto credito presso la Merkel, infinitamente più del suo predecessore che si faceva notare solo per la buffoneria e i comportamenti personali diciamo eccentrici. Guardate che i mercati stanno cominciando a considerare con terrore l’ipotesi di un ritorno di Berlusconi al potere. Sarebbe un incubo per l’Italia, per il suo spread e per il suo rating. So per certo che la Merkel non vorrebbe neanche guardarlo in faccia».
C’è dunque qualcosa di malsano nella rabbia suscitata in Italia da Moody’s, quali che siano gli intrallazzi dell’agenzia. C’è una sorta di narcotizzata coscienza di sé. Una nube d’oblio ci avvolge, coprendo pericoli che altri vedono ma noi no: il rientro di Berlusconi è considerato dagli italiani o normale, o un incidente di percorso. Significa che da quell’esperienza non siamo usciti. Che questo governo, troppo concentrato sull’economia e troppo poco su democrazia e diritto, non incarna la rottura di continuità che pareva promettere. Non ne sono usciti i partiti, se l’unico aggettivo forte è quello di Pier Luigi Bersani: «agghiacciante». Che vuol dire agghiacciante? Nulla: è il commento di un passante che s’acciglia e va oltre. Più allarmante ancora l’intervista che Enrico Letta (vice di Bersani) ha dato al Corriere della Sera il 13 luglio, e non solo perché preferisce «che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo» (le accuse rivolte a Grillo possono esser rivolte a gran parte del Pdl e alla Lega).
La frase più sconcertante viene dopo: «Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Per la
verità, di ammucchiate antiberlusconiane se ne sono viste poche in 18 anni. Altro si è visto: la condiscendenza verso il Cavaliere, la rinuncia sistematica, quando governava la sinistra, a tagliare il nodo del conflitto d’interessi e delle leggi ad personam. Non solo: l’ascesa di Berlusconi fu permessa, favorita, nonostante esistessero leggi che avrebbero potuto allontanare dal potere un grande magnate dei mezzi di comunicazione. Fu Violante, il 28 Febbraio 2002 alla Camera, a rivelare i servizi fatti dai Ds a Berlusconi: «Per certo gli è stata data la garanzia piena, non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, questo lo sa lui e lo sa Gianni Letta. Comunque la questione è un’altra: voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato di cinque volte durante il centrosinistra il fatturato di Mediaset». Morale (o meglio immorale) della storia: Berlusconi poté candidarsi nonostante un decreto (30 marzo 1957, n° 361) che dichiara ineleggibili i titolari di pubbliche concessioni.
Questo significa che il primordiale male italiano (l’assenza di anticorpi, che espellano da soli le cellule malate senza attendere i magistrati o la Corte costituzionale) resta non sanato. Che un esame del berlusconismo tuttora manca. Il conflitto di interessi è anzi diventato normale, da quando altri manager «scendono in campo». Montezemolo sarà forse candidato, e nessuno l’interroga sugli interessi in Ferrari, in Maserati, nel Corriere della Sera, nel Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv). Il silenzio sul suo conflitto d’interessi banalizza una volta per tutte quello di Berlusconi. Non è antipolitica, la convinzione che i manager siano meglio dei politici?
Viene infine il governo. Un governo di competenti, che non sembrano attaccati alla poltrona. Una persona come Fabrizio Barca lavora senza pensare a carriere politiche. Dice addirittura che per fare riforme per la crescita servono «visioni del capitalismo che solo un mandato elettorale può attribuire», e solo un «governo nato da una competizione elettorale vera» può attuare ( la Repubblica,
15 luglio) Monti ha fatto molto per ridare credibilità all’Italia. Quando parla dell’Unione, è senza dubbio più preparato di Hollande e della Merkel. Ma a causa della maggioranza da cui dipende, molte cose le tralascia. Ha tentato di restituire indipendenza alla Rai, ma sulla giustizia i compromessi sono tanti: a cominciare dalla legge contro le intercettazioni che potrebbe passare que-st’estate, fino ai legami tuttora torbidi che conferiscono al clero un potere abnorme sulla politica.
L’ultimo episodio riguarda la Banca del Vaticano, lo Ior. Risale al 4 luglio l’ordine che il governo ha dato alle autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, invitate a dire quel che sapevano sui traffici illeciti dello Iot, affinché tenessero chiusa la bocca in una riunione degli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa convocato a Strasburgo. Talmente chiusa che Giovanni Castaldi, capo dell’Unità di informazione finanziaria (Uif, organo di Bankitalia), ha ritirato i suoi due delegati dall’incontro.
Gli anticorpi restano inattivi, se certe abitudini persistono. Se il governo si piega a poteri non politici. Se lascia soli i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Se non garantisce che il vecchio non tornerà. Non solo il vecchio rappresentato dal debito pubblico. Anche il vecchio che per anni ha offeso lo Stato di diritto. Possibile che Il Padrino-Parte IV sia
un film horror per i giornali tedeschi, e non per gli italiani?
La Repubblica 18.07.12
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