Le distruzioni del terremoto emiliano colpiscono al cuore la formula produttiva italiana; quella formula distrettuale che in pochi decenni ci ha portati da Paese industrialmente arretrato a punta aguzza dell’industrializzazione mondiale. Vi è un sostanziale accordo, fra gli storici economici italiani, che ciò è accaduto, in modo spontaneo e imprevisto, per accumulazione interna e reinvestimento sistematico delle risorse aziendali e – a parte le svalutazioni degli anni pre-euro e l’azione dell’Ice sui mercati esteri – senza alcun sostanziale sostegno pubblico degli investimenti privati.
Anzi, nella generale incomprensione e – paradossalmente – condanna dell’arretratezza di una industria che appariva attestata sulla dimensione aziendale, piccola e media. Ebbene, la permanenza dell’Italia al top dell’industria mondiale è oggi in serio pericolo. Anche nei settori più tipicamente nostri.
I distretti industriali emiliani, oggi colpiti dal terremoto, sono, infatti, una delle punte di diamante del nostro export.
Il terremoto emiliano mette il dito sulla piaga. Se sbagliamo la diagnosi della peculiarità del nostro processo di sviluppo, corriamo il rischio di vanificare gli sforzi dei 50 anni passati. Prendiamo due casi emblematici: il biomedicale di Mirandola e la meccanica/meccatronica, diffuse in quelle aree. Si tratta di produzioni che si sono costruite, lentamente, tenacemente, un posto di monopolio condizionato, ampiamente riconosciuto, nel mercato mondiale. Voler vedere, come certuni fanno, la fonte della loro eccellenza, negli impianti modernissimi, quasi avveniristici, dell’una e/o dell’altra zona, significa deviare l’attenzione dai veri fattori differenziali del loro primato, come la competenza tecnica e la diffusa convinzione (e l’orgoglio) di essere nel flusso del progresso, non solo tecnologico o organizzativo, ma, in senso generale, umano e civile.
Ebbene, è in questa consapevolezza la preziosa risorsa che deve guidarci, oggi, nell’opera ricostruttiva. I piccoli e medi imprenditori emiliani e i loro dipendenti, consapevoli che le loro fortune sono legate a una collaudata formula organizzativa-economica e, al tempo stesso, civile – il distretto industriale -, si trovano a porsi l’interrogativo se delocalizzare l’attività in zone sismicamente più sicure, oppure pazientemente ricostruire in loco, le infrastrutture umane materiali, intaccate o distrutte dal terremoto. Sappiamo tutti che alcune delle imprese di questi distretti cadranno a metà strada della ripresa, e altre finiranno col delocalizzare, ma è il clima civile, di ricostruzione e di sviluppo, che anch’esse avranno contribuito a produrre, quel che conta. Clima culturale e civile di una popolazione storicamente fattiva, che si riconosce e si misura nelle sfide più impegnative.
Popolazioni di tal genere – oggi, nelle difficoltà angosciose del dopo terremoto, lo possiamo dire meglio di sempre – sono un patrimonio prezioso per un Paese come il nostro. Esse debbono, conseguentemente, nel l’interesse di tutti, essere aiutate a risorgere dai calcinacci del terremoto. Ogni misura promozionale della loro ricostruzione e del loro sviluppo, ci ritornerà moltiplicata, siamone certi, a tempo debito.
L’appello è stato sottoscritto dalle Università di Modena e Reggio Emilia, di Parma e di Ferrara
dal Sole 24 Ore 18.07.12