Per comprendere l’eccezionalità del ricorso per conflitto di attribuzione deciso dal Presidente della Repubblica nei riguardi della procura di Palermo, occorre anzitutto considerare che in 56 anni di funzionamento del nostro sistema di giustizia costituzionale questo è il secondo caso nel quale un Presidente della Repubblica ha ritenuto di rivolgersi alla Corte Costituzionale per chiedere ad essa tutela (il caso precedente è stato quello del presidente Ciampi, relativo alla titolarità del potere di decidere sulla grazia).
Ma poi, in questo caso, il Presidente della Repubblica, che presiede anche il Csm ed è certamente un sicuro difensore dell’autonomia della magistratura ordinaria, ha ritenuto che una importante struttura giudiziaria abbia addirittura menomato i poteri della Presidenza della Repubblica. Ed, infine, il presidente Napolitano ha deciso di ricorrere malgrado il suo mandato sia entrato nel periodo finale e quindi possa avvenire che la sentenza della Corte Costituzionale giunga dopo la sua sostituzione: a questo proposito, anzi, egli ha opportunamente ricordato la preoccupazione di Einaudi di mantenere integre anche per il prossimo Presidente della Repubblica, «le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».
Appunto, ciò che sembra in gioco sono le garanzie di tipo penalistico e processualpenalistico che sono attribuite al Presidente della Repubblica dal nostro sistema costituzionale: l’art. 90 della Costituzione prevede espressamente che a questo organo monocratico e non sostituibile, titolare di limitati ma delicatissimi poteri di garanzia e di risoluzione delle difficoltà di funzionamento del sistema politico ed istituzionale, possano essere eventualmente imputate durante il suo mandato solo alcune gravissime responsabilità penali per delitti del tutto tipici (alto tradimento e attentato alla Costituzione), mentre egli non può essere perseguito per altri atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. E’ solo in riferimento ad indagini relative a questi ipotetici gravi delitti che un’apposita disposizione di legge (art. 7 della legge n. 219 del 1989) prevede che si possa procedere ad «intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione»: e ciò lo può decidere o – eccezionalmente ed in via provvisoria – il Presidente dell’apposito Comitato parlamentare o lo stesso Comitato, ma solo dopo che la Corte Costituzionale abbia deciso la sospensione dalla sua carica del Presidente della Repubblica.
Sembra del tutto evidente che norme del genere sembrano palesemente rendere illecita ogni altra intercettazione di conversazione o comunicazione di un Presidente della Repubblica. Ma si obietta che, nel caso che ha originato il conflitto, le intercettazioni di conversazioni del Presidente della Repubblica sarebbero avvenute del tutto casualmente, dal momento che si intercettava il telefono di altri soggetti. Anche volendo prescindere dal fatto che varie recenti sentenze della Corte Costituzionale in tema di intercettazioni «casuali» di parlamentari (le cui intercettazioni dovrebbero essere previamente autorizzate) hanno fatto notare che alcune volte le intercettazioni in realtà non sono affatto casuali, nel caso di conversazioni del Presidente della Repubblica non siamo dinanzi a casi nei quali sia comunque possibile ottenere, magari «a posteriori» un’autorizzazione ad utilizzarle: le conversazioni riservate del Presidente della Repubblica non possono infatti mai essere utilizzabili e quindi dovrebbero essere immediatamente eliminate, anche ove davvero casualmente raccolte.
Naturalmente sul ricorso sul conflitto deciderà in piena autonomia la Corte Costituzionale, sulla base della documentazione di come davvero le vicende di fatto si sono sviluppate. Quello che però mi sembra del tutto pacifico è che la posizione giuridica del Presidente della Repubblica non può essere confusa né con quella di un cittadino come tutti noi, né con quella di un parlamentare, quest’ultimo infatti è tutelato da un’apposita disposizione costituzionale (l’art. 68 della Costituzione), molto diversa da quella che riguarda il Capo dello Stato.
Resta da dire qualcosa a proposito dei magistrati della procura di Palermo, che sembrano sinceramente aver smarrito il senso del limite relativo alla loro fondamentale funzione: se già giustamente si è notato da parte di Valerio Onida che le interminabili loro indagini sulla presunta trattativa fra Stato e mafia dopo le note stragi avrebbero dovuto da tempo concludersi con il trasferimento di tutta la questione al competente Tribunale dei Ministri, ora addirittura le confuse giustificazioni relative alla sorte delle intercettazioni «casuali» del Presidente della Repubblica, fanno nascere qualche dubbio sulla loro piena consapevolezza del complessivo quadro costituzionale e legislativo entro cui operiamo.
Ma soprattutto, ogni organo delle nostre istituzioni deve avere piena consapevolezza dei propri poteri, ma anche dei propri limiti.
La Stampa 17.07.12