Affinché con il voto del 2013 nel nostro Paese siano ripristinate le normali condizioni democratiche e si affermi una chiara alternatività destra-sinistra, tra le discontinuità da far valere rispetto al governo Monti ce n’è una che riguarda crucialmente la linea dell’austerità. La riflessione su di essa deve illuminare anche la difficile valutazione dei recenti vertici europei. I loro esiti, infatti, vanno soppesati non solo in base alla significatività o meno dei movimenti in direzione dell’adozione del calmieratore degli spread per Paesi con le finanze pubbliche in ordine e della possibilità di operare interventi di ricapitalizzazione delle banche in difficoltà senza influire sui bilanci pubblici. E sotto questo profilo è difficile dubitare del valore dei passi in avanti compiuti in via teorica e di principio e, al tempo stesso, non rimanere perplessi quanto alla loro lunga scansione temporale e ai molti controversi aspetti tecnici. Ma i recenti vertici vanno valutati anche per un altro aspetto decisivo e cioè il fatto che in nessun caso – anche quando la loro significatività venga giudicata totale – si può dire che la politica di austerità imposta a tutti i Paesi europei dalla Germania della Merkel sia stata rimessa in discussione. Eppure la spirale fallimentare a cui l’ortodossia restrittiva e deflazionistica sta dando luogo è sotto gli occhi di tutti: azioni draconiane sui deficit pubblici, mentre spingono in recessione tutti i Paesi europei (il Pil dell’Italia nel 2012 diminuirà del 2,4% secondo Confindustria) e fanno esplodere la disoccupazione, aggravano e non risolvono i problemi del debito, per affrontare i quali si ricorre a nuove misure di contenimento del deficit che, sempre più spingendo l’economia verso contrazioni aggiuntive e aggiuntivi cali delle entrate, si risolvono in ulteriori incrementi del debito e del deficit. In Italia il ruolo recessivo che giocherà la spending review (con un taglio della spesa nella sanità, nel pubblico impiego, nelle Regioni e negli enti locali, nei servizi di più di 20 miliardi addizionali in tre anni) è emblematico di questa spirale perversa. L’intenzionale ed esplicita finalizzazione dell’austerità, dei tagli, delle privatizzazioni e dell’«arretramento» del perimetro pubblico – quest’ultimo assunto indiscriminatamente come «degenerazione statalistica» – converge verso il depotenziamento e il depauperamento del ruolo e della leva pubblica. Perché questo avviene? E proprio in un momento in cui tutto ci dice – dalla attuale keynesiana “trappola delle liquidità” che impedisce agli investimenti di prendere una via produttiva, all’esplosione della recessione e della disoccupazione, alla necessità non soddisfatta dal mercato di dare vita a un nuovo modello di sviluppo basato su riqualificazione ambientale, beni sociali, beni comuni – che solo un big push (una «grande spinta») trainato dal motore pubblico può rovesciare lo status quo e dare vita a una spirale benefica di crescita/equilibrio di bilancio/crescita? Non può trattarsi solo di masochismo. Bisogna risalire ai convincimenti profondi sottostanti, che in parte accomunano la Merkel a personaggi come Monti (il quale pure ha già realizzato una personale discontinuità passando dal sostegno all’asse Merkel-Sarkozy al praticare un asse ben diverso con Hollande). Emerge qui la questione di quella variante di destra dell’economia sociale di mercato, racchiusa nell’«ordoliberalismo», pregiudizialmente ostile a un interventismo di tipo keynesiano (di cui ho scritto in precedenti articoli sull’Unità e su cui si è soffermata Barbara Spinelli su La Repubblica dell’11 luglio). Questa visione si concentra esclusivamente sui problemi dell’offerta cosicché un forte intervento dello Stato è considerato necessario solo per imporre la concorrenza. Per tutto il resto l’economia va liberata dai vincoli statali. Infatti, l’imputata – che spiazzerebbe l’investimento privato – è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così attivare, magari dopo una ventina d’anni, la crescita. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate, non essendo possibile svalutare unavaluta nazionale di cui non si dispone più, mediante «svalutazioni interne» affidate alla compressione dei salari, derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro, e alla deflazione salariale. Perciò la concertazione si dà per sepolta, accusata addirittura di aver causato l’incremento della disoccupazione giovanile con una sconcertante riproposizione della contrapposizione padri-figli. I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione, le sofferenze che per molti anni si dovranno vivere sono viste come un male doloroso ma necessario. L’alternativa richiede di sostituire all’immagine di un’Europa «deflazionistica» quella di un’Europa «progressista», con la mutualizzazione e l’europeizzazione del debito anche mediante Eurobond, il ruolo di prestatore di ultima istanza attribuito alla Bce, l’allargamento del bilancio comunitario per il rilancio degli investimenti e il superamento delle divergenze.
L’Unità 17.07.12