Il cambio al vertice Rai rinfocola le logomachie sulla «tv di qualità» e il tifo per le nomine da parte dei gruppi editoriali concorrenti (Valentini su Repubblica ha le sue idee sul Tg1: sì a Gruber, no a Preziosi. Sul resto farà sapere).
Nomine e chiacchiere, chiacchiere e nomine. Invece le righe che seguono sono dedicate, scusate la digressione e la volgarità, al destino della industria audiovisiva italiana e alla sua posizione nel mondo. Siamo un Paese piuttosto grande (60 milio- ni di abitanti) e piuttosto ricco, crisi a parte. Siamo anche istruiti e i giovani hanno maturato una enorme competenza di web, cinema e tv. Ma abbiamo una industria audiovisiva molto piccola che occupa qualche decine di migliaia di persone mentre altri Paesi a noi simili, come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare della Germania, dispongono di eserciti che vanno dai centomila in su. Per di più si tratta di posti di lavoro ad alta qualifica- zione e indenni dal rischio delle delocalizzazioni. Perché siamo ridotti così? Perché il duopolio esiste per coltivare visibilità (la Rai) o spremere rendite (Mediaset), attività che non richiedono di «produrre tv». La tv infatti la puoi mettere assieme anche senza crearne neppure un minuto. Una bella lista di successi d’oltreoceano inframezzati da chiacchiere, pubblicità e notiziari, e il palinsesto è fatto. «Produrre tv» invece è una attività creativa che si basa sia sulla interpretazione originale di generi canonici (come fa Mentana col TG o la scuola Santoro col dibattito/inchiesta) sia su prodotti originali (come film, telefilm e format) di alto costo, ma capaci di trovare clienti anche all’estero
Il nostro problema è che di prodotti di quest’ultima categoria ne realizziamo pochi, belli o brutti che siano. E già questo ci taglia fuori dai mercati mondiali dove è il volume della produzione che deve essere significativo, non la singola opera, anche se ramazza premi nei festival. E inevitabilmente, non trovando risorse nelle esportazioni, Rai e Mediaset si rattrappiscono sempre più su produzioni che non guardano al di là del mercato interno. Un circolo vizioso in cui la debolezza sul mercato mondiale lascia spazio solo a iniziative di corto respiro che accentuano a loro volta la esclusione dell’Italia dal grande gioco della industria audiovisiva. Con le conseguenze che abbiamo ricordato: mentre gli altri celebrano trionfi occupazionali nell’industria dei contenuti, noi la conosciamo come la quintessenza del precariato.
Il treno del mercato mondiale lo abbiamo perso a causa della espansione subitanea e canagliesca del sistema televisivo avvenuta alla fine degli anni ’70. Troppe tv da riempire hanno reso inevitabile la tv delle chiacchiere e dei prodotti d’acquisto, dilatando la distribuzione a scapito della produzione. Ma quello che porta al mercato mondiale è anche un treno che può ripassare e su cui possiamo salire nel medio-lungo periodo, se da subito cominciamo a fare i compiti giusti. A partire dal ripensamento strategico della presenza pubblica.
La Rai di oggi non è un editore, ma un elemosiniere, che bada a lottizzare i soldi pubblici e del resto se ne infischia. E invece, per cominciare la scalata al mercato mondiale, avremmo bisogno di un editore vero (tipo l’in- glese Channel Four, per chi lo conosce) e non farlocco. In più sarebbe necessario che nel sistema della tv ci fosse più concorrenza. Perché senza concorrenza non possono esistere produttori davvero indipendenti, ma semplici appaltatori esecutivi: non fucine di idee e di azioni strategiche, ma imprese di amici degli amici. Gente che va al Billionnaire, altro che ai mercati.
In ultima istanza, come è ovvio, il problema è politico. A proposito, Bersani, Renzi e altri primaristi in pectore, hanno qualche idea attorno a questi problemi? Tanto per capire perché candidarli.
L’Unità 16.07.12