Brandendo dei fasulli sondaggi segreti a lui favorevoli, Berlusconi somiglia sempre di più a quell’orribile idolo pagano che soleva succhiare il nettare dal cranio degli uccisi. La prematura morte politica di Alfano è la condizione per la resurrezione del condottiero di Arcore. È vero che il Cavaliere si riprende il comando perché sente che attorno a lui non opera un vero partito. Ma è altrettanto certo che a destra nessun partito potrà nascere se ogni delfino tra i piedi si ritroverà sempre un padrone scomodo che decide a sua discrezione assoluta il leader, il nome, il simbolo.
Alfano mette la parola chiuso ai cantieri per edificare un partito della destra perché non ha osato sfidare il capo. All’origine del suo fallimento c’è la volontà subalterna di rimanere all’ombra di Berlusconi rinunciando a sfidarlo apertamente. Così, nella Lega, ha fatto Maroni che ha promosso un nuovo gruppo dirigente e ora cancella il nome di Bossi dal simbolo del partito. Non si esce da un partito personale (e padronale) senza una grande discontinuità.
Finché in giro si agita il Cavaliere, il partito, inteso come una struttura organizzata autonoma e quindi provvista di procedure e di organi indipendenti, può attendere. Quello che per lui davvero conta è di avere delle truppe fedeli disposte all’obbedienza estrema. I deputati servono solo per proteggerlo nella titanica difesa degli interessi d’azienda ritenuti minacciati. Un progetto politico nel Cavaliere non emerge, se non come una mossa strumentale per l’autotutela del suo potere economico.
Anche Berlusconi sa bene di essere precipitato ai margini del gioco politico principale. In vista della prossima tornata elettorale, se manterrà fede al proposito di dare fuoco alle polveri e non cederà a qualche consiglio di calcolare meglio le convenienze, egli conta di presentarsi a Montecitorio alla testa di un centinaio di deputati sempre fedeli alla causa. Non spera certo di trionfare, ma conta di disporre comunque di una compatta pattuglia personale-patrimoniale pronta a negoziare, minacciare, contrattare l’agenda con il vincitore.
Se poi dal voto uscisse confermato il disegno per il quale lavorano da mesi anche molti grandi giornali, e cioè una sostanziale condizione di ingovernabilità, per la presenza in aula di tante liste e di cordate antipolitiche non coalizzabili, allora potrebbe anche sperare di essere (proprio lui che invocava il ritorno alla lira) arruolato tra le armate irregolari dei responsabili, disposti a consegnare di nuovo le chiavi del potere in mano al tecnico.
Quello che torna a sbandierare i sondaggi che narrano di un inesistente miracoloso effetto leader, non è un Berlusconi bipolare che da guastatore sfida il mondo con lusinghe e castighi, ma è un Cavaliere rassegnato che cerca di sbarrare la strada alla sinistra con una nuova arma letale, quella del pareggio non in bilancio, ma in aula. Gli piace questa condizione di indecisione permanente (finché nulla turba le pretese di Mediaset nel campo dell’etere).
Con l’illusione di sospendere la politica grazie alla soluzione tecnica gradita ai mercati, si strapazza in realtà solo la buona politica, quella che ovunque si divide in maniera fisiologica tra una destra e una sinistra, mentre si favorisce la presa di massa delle degenerazioni dell’antipolitica, che cavalca la santa guerra contro la casta. I giornali di famiglia di Berlusconi annusano che nel silenzio coatto della politica si può persino sognare il colpo grosso.
Quando qualcuno alza la voce contro la concertazione fonte di ogni male, irride il lavoro inteso come diritto e sfida i pensionati, minaccia il lavoro pubblico, gli enti locali, tutti i giornali di destra esultano. Sperano che dopo queste provocazioni, al Pd tocchi la sorte di Dorando Petri, cioè quella di accasciarsi in vista del traguardo, perché destrutturata ad arte la sua forza vitale che è proprio nel lavoro, nel ceto medio.
Il Berlusconi che dismette i panni del Masaniello per indossare alla svelta quelli di supporto al tecnico non ha un coerente disegno di sistema. Altrimenti, nell’ipotesi della sconfitta, avrebbe favorito il consolidamento della figura di Alfano che avrebbe messo i mattoni di una parvenza di partito. La tenuta del sistema Paese oggi è minacciata proprio da talune conversioni tecnocratiche. Una riedizione del governo di tregua renderebbe stabile quanto oggi si verifica già sulla legge elettorale, su cui si procede a rilento malgrado le insistite esortazioni del Colle. La paralisi, il ricorso a raffiche di voti di fiducia, il rinvio renderebbero sterile il funzionamento della macchina istituzionale, con gravi ricadute storico-politiche sulla qualità della democrazia.
Perciò, quale che sia la legge elettorale, una alleanza costituzionale tra progressisti e moderati rimane la sola alternativa valida per gestire l’emergenza economica, per restituire prestigio ed efficacia alle istituzioni e per rianimare una cultura politica altrimenti congelata.
l’Unità 14.07.12
******
“La Minetti rinnegata specchio del Cavaliere”, di FRANCESCO MERLO
Ha relegato Nicole Minetti, che fu la sua mezzana-sottana, al ruolo della strega, della maga Circe che lo aveva trasformato in maiale, pur non essendo lui un marinaio di Ulisse. Uscito dalle scene orgiastiche che frequentava da assatanato, Silvio Berlusconi rientra dunque in politica come un Fra Cristoforo pentito e compunto e spinge Nicole alle dimissioni da consigliere regionale della Lombardia. Nel ruolo del ricandidato redento vorrebbe liberarsi di lei come di un peccato subito.
La debolezza di un giovane ultrasettantenne, la stecca di un tenore senza stile. E così il destino della Califfa, che Berlusconi fece eleggere nella lista bloccata di Formigoni, diventa lo stesso destino di Alfano, che sta a Silvio come il trota stava a Bossi, lo stesso destino di Emilio Fede e di tutti gli altri. E chissà quante e quanti ancora ne vedremo cadere in questa eterna commedia che per Berlusconi è la politica.
Impresario teatrale, il Cavaliere assegna ruoli che sono sempre estremi perché ha un alto senso della comicità. E difatti la Minetti, che adesso per lui è la maliarda malafemmina, fu «la lady che, splendida, competente, studiosa, laureata con lode e con un inglese di madre lingua, permetteva alla Regione Lombardia di fare una bellissima figura con gli ospiti internazionali ». Allo stesso modo Alfano si ritrovò ministro della Giustizia, delfino, candidato premier: l’uomo che fu per diventare ticket.
E Fede fu il grande tele giornalista, Lavitola lo sherpa, Lele Mora il trimalcione… Ebbene, Berlusconi si è liberato di tutti loro come si è ora alleggerito di quattro chili di grasso.
E le dimissioni della Minetti sono come la vendita di Ibrahimovic e Thiago Silva al Paris Saint-Germain per 150 milioni in due anni, passaporti per la sobrietà di moda, come quella dieta sbandierata dai suoi giornali che lo raccontano smilzo e lesto al pari di un gatto, un aggiornamento dei finti capelli che Carlo Rossella gli metteva in testa truccando le foto di Panorama e degli album celebrativi di Alfonso Signorini. Insomma ancora un lifting che copre gli altri lifting, un’estrema mano di stucco su crepe mille volte stuccate.
Secondo le indiscrezioni, Berlusconi ha offerto alla Minetti la conduzione di uno spettacolo televisivo in prima serata. Non sappiamo se la Circe di Arcore accetterà il declassamento, proprio lei che aveva dichiarato a Repubblica: «Punto alla Farnesina». Sicuramente Silvio ha chiaro che, riportandola dalla politica attiva — «per te c’è un posto in Parlamento» le ripeteva — al “Colorado Caffè” dove la Minetti aveva esordito, ammette implicitamente la serietà delle imputazioni di induzione e favoreggiamento della prostituzione (anche minorile). La sola differenza rispetto ai pubblici ministeri, con i quali Berlusconi finalmente solidarizza nelle accuse alla sua Nicole ridotta a fattucchiera, è che quelli le prospettano la galera, mentre lui la vuole rinchiudere nel varietà televisivo. Ma ormai tutti sanno che le trasmissioni di risarcimento sono l’estrema risorsa che sta nel fondo del suo borsellino, l’ultimo pugno di granturco gettato ai tacchini e alle pollastre.
E tra le colpe di Berlusconi c’è anche il terribile destino di una bella donna, il cui seno diventava maestoso per lui e le cui labbra si sporgevano generose per lui, come se fosse questo il destino delle belle donne italiane: finire nella mani di un ramarro. Berlusconi incontrò un’affascinante arrabbiata di Rimini, che è la città delle donne di Fellini, e la trasformò in una sboccata madame de Pompadour che sceglieva e «briffava» e «confessava » le favorite per meglio farsi favorire. La proclamò maitresse di Stato e la Minetti fu la lupa, la capobranco e l’istitutrice delle Ruby, delle Iris e di tutte le ragazze stacchetto, «trasvestite» da infermiere o poliziotte, tutte bambole sexy. La Minetti, come risulta dalle intercettazioni, si vestiva da uomo, una specie di Calamity Jane, oppure danzava nuda nel Berlusconi-Satyricon. Di sicuro non aveva bisogno di passare di classe sociale come le altre ragazze che erano spinte dai fratelli e dalle mamme, tutte fiere del “mestieraccio” purché esercitato ad Arcore. La Minetti infatti chiamava Silvio «love of my life», era già in Consiglio regionale, amministrava appartamenti e beni immobili, il suo futuro era il ministero degli Esteri.
Poi, quando scoppiò lo scandalo, Berlusconi si spaventò. Proprio la Minetti poteva diventare in tribunale la sua tomba, l’arma letale contro di lui. Depositata nelle intercettazioni c’era infatti la sua voglia implacabile di vendicarsi, quando il sogno di farcela come la Carfagna, «come Mara», divenne un incubo: «Qua la cosa si fa grossa.
Sono nella merda seria più di tutti quanti». E dunque «per quel briciolo di dignità che mi rimane», per quel padre per bene che rimase ferito… E Berlusconi era «un pezzo di merda» e «quando si cagherà addosso per Ruby» e insomma «c’è un limite a tutto». E poi l’epigrafe più famosa: «È un culo flaccido».
Invece Berlusconi ne riconquistò il sorriso e se ne assicurò il silenzio. Per lui la Minetti affrontò, con il coraggio che Berlusconi non ha mai avuto, la Boccassini, il tribunale, gli avvocati, l’esposizione ai giornalisti e ai fotografi che la trattarono da donna pubblica: «Ogni volta che mi fate una domanda è sempre su Ruby e sul gossip. Ma io di questa vicenda non parlo». Persino adesso, che non si presenta in tribunale e rivendica «il legittimo impedimento», lo fa con un sorriso sardonico, sottolinea e scandisce «legittimo impedimento » con uno sfottò ammiccante e quasi sexy a favore di telecamera, e non certo verso la Corte. Il suo «legittimo impedimento», infatti, non è una formula giuridica ma una citazione, e quel sorriso seducente è «un mandare a dire», il messaggio di un’intimità sotterranea con il suo ex pigmalione, rispetto al quale giganteggia.
La Minetti è stata a un passo dalla propria liberazione, poteva decidere il palinsesto, tornare alla decenza, pulirsi del crimine: «Io al massimo prendevo le contravvenzioni, ma non arrivavo a commettere reati». Non l’ha fatto. E non l’ha fatto per lui che, rinnegandola, adesso rinnega anche quel se stesso mozartiano e libertino al quale noi non abbiamo mai creduto ma che i suoi giornali hanno lungamente esibito componendo con lascivia corriva il più triste elogio del mascalzone della storia della pubblicistica italiana. La verità è che il satrapo lazzarone e gaudente, il Caligola orbo di crudeltà ma sazio di lussuria, è un vecchio sconfitto che non sa uscire di scena, non riesce a lasciare il palco e come in Amici miei atto terzo si ricovera nella naftalina, pur disprezzando i propri coetanei che ieri, in 150, all’hotel Ergife hanno inutilmente sperato di applaudirlo.
Non c’è andato. Ha saputo che quella era claque reclutata in un centro anziani: «Basta con tutti questi vecchi». Eppure è solo da loro che può ora farsi eleggere a capo di una destra perdente da casa di riposo. Perciò con energia arzilla tradisce anche la Minetti. E per dimostrare il proprio pentimento, come i vecchi sporcaccioni del Seicento, implicitamente l’accusa di essere l’organizzatrice dei diabolici sabba notturni di Arcore e poi, assumendosi il ruolo di giustiziere, la brucia nel pubblico autodafé delle dimissioni. Manca solo che dia l’incarico al ragioniere Spinelli di far radere al suolo l’Olgettina per erigere al suo posto una colonna infame.
La Republica 14.07.12