Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi. Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato. E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo. «Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa». Perché? «Né la Soprintendenza né il ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà». Per esempio? «Ci è stato offerto il Sepolcro degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo». Sono monumenti visitabili? «Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata». Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata. «Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia». Un piccolo passo avanti. «È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le altre». Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo? «Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela». Che vuol dire? «Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto». Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale. «Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resistenze anche dentro il ministero ». Quando? «Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ». Quali abusi si commettono sull’Appia? «Qualche giorno fa ci hanno segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento». E voi? «Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ». La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia. «Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate». La sua fatica più grande? «Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli». L’attuale ministro? «Mai visto». Quanto guadagna? «1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».
La Repubblica 13.07.12
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“Paesaggio e opere d’arte, beni comuni come l’acqua”. Parla Francesco De Sanctis, appena nominato presidente del Consiglio superiore del Mibac, di Dario Pappalardo
«Lo sosteneva già Marx: la natura così come era uscita dalla mano del creatore non esiste più. Dobbiamo ritrovare lo spirito del luogo, imparare a rileggere e a valorizzare il paesaggio». Francesco De Sanctis, appena designato dal ministro Ornaghi presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali, ama citare l’autore del Capitale: «L’ho sempre fatto leggere ai miei studenti: l’analisi della forma sociale moderna non può prescindere da lui».
Napoletano, classe 1944, filosofo del diritto, rettore per diciotto anni dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, De Sanctis, che vanta una omonimia ma nessuna parentela con il primo grande storico della letteratura italiana, sta per insediarsi al vertice del maggiore organo consultivo del Mibac. Occuperà lo stesso posto che ha visto dimettersi prima Salvatore Settis e poi Andrea Carandini. «Mi interessa essere al servizio di questa causa in maniera gratuita e libera; mi porrò in linea di continuità con i miei predecessori – spiega – condivido molte idee con Settis. La mia formazione viene dalla filosofia del diritto, forse per questo sarò meno insofferente verso le ristrettezze del momento. Ma è inutile dire che questo è un ministero sacrificato».
Sacrificato dai tagli e da decisioni mancate, alle prese con un patrimonio artistico alla deriva – dai disastri di Pompei ai furti nella Biblioteca dei Girolamini – e con i musei pubblici vittime di budget annullati e commissariamenti: «Penso alla crisi del Madre di Napoli, che è stato un punto di riferimento per la città e che ora deve rinascere – dice De Sanctis –. Ecco, per un’impresa del genere mi impegnerei.
I miei venti anni al Suor Orsola, che è diventato esso stesso un museo e un punto di riferimento per la conservazione dei beni culturali possono essere utili per questo. Se già riuscissi a creare un rapporto di migliore collaborazione tra il ministero dell’Università e quello dei Beni culturali, sarebbe un buon risultato. Il bene culturale deve essere un luogo dove si incrociano la formazione e la conservazione ». Un bene pubblico, si spera.
«Sì, come l’acqua – ribatte il professore –. In questo senso, bisogna responsabilizzare i cittadini di fronte a questa ricchezza che non si può intendere in senso capitalistico. I profitti dei beni culturali si calcolano dopo secoli».
Sui prestiti dei capolavori all’estero, spesso sotto accusa – in questi giorni molti maestri del Rinascimento, Michelangelo compreso sono a Pechino – il neopresidente del Consiglio superiore per i Beni culturali non ha un’opinione negativa: «Purché la salvaguardia delle opere sia garantita, ben vengano operazioni di questo tipo. Possono essere tramiti di comunicazione con culture diverse e occasioni per chiedere ai Paesi riceventi contributi per il restauro e la conservazione ». De Sanctis vuole essere cauto: «Dopo Settis e Carandini bisogna entrare in questo ruolo con umiltà, senza avere in mente di poter cambiare il mondo. Nel settore viviamo una crisi trentennale. Oggi non si assume più, non c’è più rinnovo. I laureati che hanno studiato nell’ambito dei beni culturali sono dappertutto tranne che qui. Ma la battaglia non è persa».
La Repubblica 13.07.12