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"L'Italia senza una legge sulla tortura tradisce la convenzione europea", di Gian Antonio Stella

Cesare Beccaria non avrebbe mai immaginato che due secoli e mezzo dopo il suo Dei delitti e delle penel’Italia sarebbe stata ancora priva di una legge contro la tortura. E la lettera che Amnesty International ha inviato al governo ricordandogli l’impegno a introdurre il reato, impegno violato da 25 lunghissimi anni, è un atto d’accusa che ci umilia.
Era il 1987, quando l’Europa invitò gli Stati membri a ratificare la convenzione contro la tortura. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Michail Gorbaciov, la Dc aveva il 34% dei voti, Napoli era in delirio per lo scudetto vinto grazie a Maradona, mezza Italia era innamorata di una Whitney Houston apparsa bellissima a Sanremo e i membri di un gruppo di ricerca di Pisa giravano gli atenei per spiegare come avevano fatto a collegarsi per la prima volta a Internet, di cui quasi tutti ignoravano l’esistenza.
Insomma, era tantissimo tempo fa. Già il 7 marzo 1988 l’Ansa segnalava che il governo maltese aveva provveduto a ratificare la convenzione europea e spiegava che «il governo italiano l’ha firmata ma non ha ancora proceduto alla sua ratifica». Quattro anni dopo, la stessa agenzia titolava «Onu: Italia assolta con riserva» e raccontava lo stupore del giurista svizzero Jospeh Voyame, presidente del comitato internazionale: «Siamo stati molto sorpresi nell’apprendere che lo Stato italiano non è responsabile degli atti illegali eventualmente compiuti dai suoi agenti». Altri sette anni e nel 1999 ecco un altro flash: «Diritti umani: Italia sotto esame al comitato contro la tortura». La cronaca: «I giuristi del Comitato da anni premono perché nei codici penali italiani sia inserito il reato di “tortura”».
In quello stesso anno Silvio Berlusconi, all’opposizione contro una sinistra assai distratta sul tema, firmava un’interrogazione parlamentare: «Perché nell’ordinamento italiano non è stato ancora introdotto il reato di tortura?». Indignatissimo, sosteneva: «Severe critiche sono state mosse all’Italia, nell’ultimo rapporto del Comitato per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, a causa di tale mancanza…». Due anni dopo andava al potere, salvo la parentesi prodiana, per un decennio. E il reato di tortura? Ciao.
Peggio, il 6 febbraio 2009 il Consiglio italiano per i rifugiati registrava amaro: «Ieri il Senato, durante le votazioni riguardanti il cd “Pacchetto sicurezza 2” ha respinto per appena 6 voti (123 sì, 129 no, 15 astenuti su 268 votanti) l’emendamento sostenuto dalla sen. Poretti e dal sen. Perduca insieme ad altri 70 senatori di opposizione e maggioranza per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale…». La risposta del governo fu indimenticabile: la definizione del reato era «troppo vaga». Si trattava della traduzione letterale della Convenzione Onu. Già adottata da tutti i Paesi civili.
È una lunga storia proprio brutta, quella della legge sulla tortura italiana. Che ha gettato sale sulle ferite di uomini come Luciano Rapotez, che a 93 anni ancora aspetta che qualcuno gli chieda scusa (anche il Quirinale potrebbe ben battere un colpo…) per le torture subite, con danni permanenti, nel lontano 1955. O come i ragazzi vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto e nell’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 genovese del 2001, ragazzi che secondo i giudici furono trattati in modo «inumano e degradante ma non esistendo una norma penale, l’accusa è stata costretta a contestare agli imputati l’abuso d’ufficio». Per non dire di altri casi come quello di Federico Aldrovandi alla cui madre nei giorni scorsi il capo della polizia Antonio Manganelli ha inviato quella lettera così importante: «È giunto il momento di farvi avere le nostre scuse».
Per questo, dopo tanti anni, sarebbe importante se Paola Severino rispondesse con atti concreti alla lettera ricevuta dalla direttrice italiana di Amnesty International Carlotta Sami, che invita il ministro della Giustizia a «esercitare un ruolo fondamentale nell’assicurare che l’Italia introduca finalmente nel codice penale il reato di tortura» e in particolare ad «assicurare l’attuazione della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di introdurre il reato di tortura nel codice penale, un preciso obbligo del governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di funzionari e agenti dello Stato erano soggette ad accertamento». Come, appunto, i casi genovesi già citati per i quali, ha scritto su La Stampa Vladimiro Zagrebelsky, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, «se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo».
C’è chi dirà che «in fondo cosa sarà mai, tanto non c’è più la ferocia di una volta». Quella che ne Le raneAristofane elenca con amaro sarcasmo: «Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso…». Quella esercitata contro i due poveretti giustiziati come «untori» durante la peste del 1630 la cui sorte è ricordata in Storia della colonna infame da Alessandro Manzoni: «A) Il Barbiero Gio. Giacomo Mora et il Commissario Guglielmo Piazza posti sopra un carro sono ferragliati nelli luoghi più pubblici della città. B) Nel corso detto il Carrobbio è loro tagliata la mano destra. C) Nel luogo della giustizia sono spogliati nudi. D) Con la rota se gli rompeno le ossa delle gambe, delle coscie, delle braccia. E) Si alza sopra un palo la rota, nella quale sono intrecciati, e vi stanno vivi per lo spazio di sei hore. F) Sono scannati. G) Abbruggiati…». È vero, fino a quegli abissi di malvagità non si spinge più nessuno. Ma vivere in un Paese in cui non è previsto quel reato è diventato, 234 anni dopo la pubblicazione delleOsservazioni sulla tortura di Pietro Verri, insopportabile.

Il Corriere della Sera 13.07.12