Che Mario Monti non ami la concertazione fra governo e parti sociali è risaputo da anni. Ma un conto sono i numerosi e argomentati editoriali che ha scritto sulla materia in passato, tutt’altra cosa il duro e perentorio giudizio sulla questione pronunciato ieri nelle vesti di presidente del Consiglio . Sarà anche vero che il metodo delle consultazioni a Palazzo Chigi con sindacati e Confindustria è scaduto sovente in una liturgia di così scadente o nulla efficacia da legittimare critiche anche aspre. Ma il premier si è spinto molto più in là indicando in questa pratica la fonte dei «mali contro cui combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro ». C’è un eccesso di semplificazione e di disinvoltura storica in queste parole che lascia interdetti. Accantoniamo subito il dubbio che questa sortita possa essere letta come un’ulteriore e definitiva replica agli attacchi spregiudicati di chi – come il presidente della Confindustria – ha goffamente accusato il governo di fare della «macelleria sociale» con i tagli della spesa pubblica. Per vita e per cultura Mario Monti non è uomo da cadere in simili scivoloni di stile tanto più se a fronte di personaggi dalla caratura francamente non
proprio di primissimo rango. Ragione di più, quindi, per chiedersi il senso di un’esternazione che rischia di creare al presidente del Consiglio e al suo governo nuove e maggiori difficoltà, esponendoli ai contraccolpi di una polemica della quale davvero non si sentiva la necessità, soprattutto in questi frangenti sempre più critici delle cronache politiche ed economiche.
Ha avuto facile gioco, per esempio, la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, a ricordare al premier che uno dei passaggi più impervi nella storia della Repubblica è stato forzato nei primi anni Novanta proprio perché dapprima il governo Amato (luglio 1992) e poi il governo Ciampi (luglio 1993) seppero usare al meglio lo strumento della concertazione con le parti sociali per fermare la corsa del Paese verso il precipizio della bancarotta finanziaria. Certo, non fu impresa né facile né semplice, ma soprattutto l’accordo negoziato coi sindacati da Carlo Azeglio Ciampi consentì di sterilizzare
un’inflazione galoppante e di porre le premesse per il raggiungimento di un avanzo nel bilancio di parte corrente. Così aprendo la strada che anni dopo consentì allo stesso Ciampi di vincere ogni resistenza
europea all’ingresso dell’Italia nell’euro fin dalla stazione di partenza. Una svolta storica che lo stesso professor Monti non si stanca di celebrare a ogni passo ma della quale, appunto, non può far finta
di ignorare modi e metodi che l’hanno resa possibile.
Ancora pochi giorni fa, accogliendo a Roma Angela Merkel, il presidente del Consiglio ha tenuto a sottolineare che uno dei più solidi punti d’intesa con la cancelliera tedesca consisterebbe nella comune fede in quella che si chiama l’economia sociale di mercato. Ebbene, in terra di Germania nessuno perde il suo tempo in dibattiti ideologici su vantaggi e svantaggi della concertazione, ma è un fatto che non c’è altro Paese d’Europa in cui il dialogo fra governo e parti sociali sia praticato da decenni con la stessa convinta intensità. Al punto da far considerare la concertazione come il perno attorno a cui ruota, appunto, la tanto celebrata “Soziale Marktwirtschaft”.
Può anche darsi che Mario Monti coltivi in cuor suo una versione in parte diversa del modello tedesco. Ma in questo caso dovrebbe tenere presente la specifica e non ordinaria situazione nella quale opera il suo governo, privo
di una maggioranza politica omogenea nell’affrontare una delle crisi più gravi nella storia del Paese. Uno dei primi obiettivi da raggiungere – lo si è detto fin dal principio di questa esperienza – doveva essere quello di raccogliere un consenso politico nella società (e segnatamente tra le forze produttive) al fine di compensare per questa via la mancanza di un solido e compatto appoggio da parte di quella che è stata definita la sua «strana» maggioranza parlamentare. Va bene che da ultimo il premier ha tenuto a ribadire di non voler rimanere al suo posto dopo la fine della legislatura. Ma di qui alla prossima primavera, soprattutto sul terreno economico, una quantità di passaggi decisivi attende l’opera del governo. In questo orizzonte chi crede nell’utilità e nell’importanza che Mario Monti continui il suo lavoro fa fatica a spiegarsi questi comportamenti. Non gli bastano i tanti guai che già gli combinano alcuni fra i più ciarlieri dei suoi ministri?
La Repubblica 12.07.12