C’è un dato relativamente nuovo nel Rapporto Ocse sulle prospettive dell’occupazione, per quanto riguarda l’Italia: l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Contrariamente ad ogni mitologia sugli effetti benefici, per il dinamismo del mercato del lavoro, della flessibilità in uscita, emerge che chi perde il lavoro difficilmente ne trova un altro entro uno, e persino due anni. Nel migliore dei casi, la flessibilità in uscita si trasforma in turn-over, in sostituzione di un lavoratore con un altro. Nel peggiore, e più frequente, si trasforma semplicemente in perdita sia di lavoro per chi lo aveva, sia di occupazione complessiva. L’anno
scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro il 48,5% nel 2010.
Oltre alla mancanza di reddito, questo dato nasconde enormi rischi di perdita di capitale umano e professionale e di fiducia nel futuro. Contribuisce anche ad alimentare il fenomeno dei lavoratori scoraggiati, ovvero di coloro che non cercano più un’occupazione ed escono, almeno ufficialmente, dalle file degli attivi. Lo aveva già segnalato una nota dell’Istat l’aprile scorso, allorché aveva evidenziato come nel 2011 la percentuale degli inattivi sia aumentata. All’11,6% delle persone in età di lavoro, è di oltre tre volte superiore alla media europea. Ciò in parte è dovuto all’alta incidenza
dell’inattività tra le donne. Questa a sua volta rimanda non tanto a scelte libere, quanto a difficoltà sia a trovare lavoro, specie nel Mezzogiorno, sia a conciliarlo con le responsabilità familiari in un contesto di servizi scarsi e in via di ulteriore riduzione. Ma l’inattività è in aumento anche tra gli uomini.
Nella stessa nota, l’Istat indicava come tra gli “inattivi” quasi la metà fosse composta da persone scoraggiate dal persistente insuccesso nella ricerca di un lavoro. Se si aggiungessero anche loro ai disoccupati “ufficiali” i dati sulla disoccupazione apparirebbero ancora più drammatici di quanto non siano. Le cifre peggiorerebbero ulteriormente se
si tenesse conto della sotto-occupazione, ovvero di chi lavora part time (poche ore al giorno, o pochi giorni alla settimana), non per scelta, ma perché non trova altro. Anche loro sono aumentati nel 2011 e costituiscono il 90% di tutti gli occupati part time.
È vero che la crisi occupazionale ha colpito in modo sproporzionato quella minoranza di giovani tra i 15 e i 24 anni che non sono più a scuola e che non sempre possono accedere all’apprendistato. Ma il rapporto Ocse segnala che disoccupazione di lunga durata, scoraggiamento, part time involontario sono fenomeni in crescita anche tra gli adulti. In particolare, l’aumento della disoccupazione di lunga durata
riguarda anche gli uomini tra i 24 e i 54 anni. Mentre nel discorso pubblico sul mercato del lavoro continuano a essere additati come i privilegiati iperprotetti a danno dei più giovani (che per altro i più vecchi tra loro spesso devono mantenere), anche i maschi nelle età centrali stanno sperimentando l’erosione delle proprie sicurezze, con effetti a cascata sulla sicurezza economica delle famiglie, come evidenziano i dati più recenti sulla riduzione sia dei consumi sia del risparmio.
A fronte di questa situazione il rapporto Ocse valuta con favore la riforma del mercato del lavoro di recente approvata, specie nella parte che riduce la precarietà all’ingresso e allarga
le tutele per chi ha perso il lavoro. Sappiamo tuttavia che entrambi questi elementi sono molto più ridotti di quanto non fosse auspicabile, lasciando fuori ancora molti lavoratori e lavoratrici. Non solo, gli emendamenti che i partiti stanno cercando di fare approvare, invece di rafforzare questi due elementi in una direzione maggiormente universalistica, sembrano andare in direzione di un loro depotenziamento (nel caso della flessibilità in entrata) e di un loro rimando (nel caso dell’Aspi). Temo che ciò non servirà a creare maggiore occupazione, mentre cristallizzerà ulteriormente le disuguaglianze nel mercato del lavoro.
Chiara Saraceno