I primi sei mesi dell´anno sembrano passati invano dal punto di vista delle riforme. I partiti non le fanno, insensibili all´emergenza civile e democratica in cui versa il Paese, esito temibile ma sempre più vicino di una crisi economica di cui prova a farsi carico Monti, e di una crisi politica il cui solo interprete credibile è il capo dello Stato. Napolitano sta cercando nei modi a sua disposizione – cioè esercitando una moral suasion di grande impegno e di largo respiro – di fare del nostro sistema politico una democrazia decidente.
Sta cercando di trasformare le chiacchiere in azione, il gretto e miope interesse di parte in contributo all´interesse nazionale. Miope è infatti quell´interesse che spinge i partiti – ma soprattutto il Pdl e la Lega – a cercare di confezionarsi una legge elettorale su misura (come fu peraltro il Porcellum di Calderoli, ideato per attenuare – con successo, come si vide – gli effetti della vittoria elettorale di Prodi nel 2006); col risultato di estenuarsi in trattative riservate (ultima debole figura degli arcana imperii) dalle quali escono proposte mostruose, subito abortite perché non vitali, che vogliono mettere insieme le frattaglie di questo e di quel sistema elettorale, combinando ciò che non può essere combinato – tutto va bene, purché alla fine sia salvo il supremo valore di ciascun partito: la propria sopravvivenza, senza la quale pereat mundus, vada in rovina tutto quanto –. La pretesa di garantire tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: ossia, la conferma del Porcellum (forse con qualche marginale aggiustamento sulle preferenze), che assurge così a emblema dell´impotenza del sistema dei partiti, e anche a simbolo dei loro desideri più profondi: nominare il Parlamento, divorare la rappresentanza del popolo.
È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul meccanismo del “rilancio”: poiché non si può dire semplicemente No al cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili, come fa il Pdl: per il quale la riforma elettorale deve essere preceduta da una modifica costituzionale della forma di governo, cioè dall´introduzione del presidenzialismo su base elettiva; che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile. Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. Una pratica miope, appunto, perché non vede che un´autentica riforma elettorale è l´unica via ancora percorribile per rilegittimare la politica – come sul versante economico la ripresa può legittimare i tagli della spesa pubblica –; che, insomma, la sopravvivenza dei partiti è garantita, eventualmente, dall´introdurre soluzioni che diano ai cittadini qualche motivo e qualche stimolo per votarli, e non certo dal permanere, offensivo e deprimente, di uno status quo che dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che l´Italia non ha un ceto politico ma, davvero, una corporazione, una Casta, destinata in quanto tale a perire sotto la marea montante dell´astensionismo e del grillismo. E a trascinare con sé il Paese.
Che il capo dello Stato indichi non solo l´obiettivo (una riforma reale, presto) ma anche la via (larghe intese fin che si può, e poi decisione a maggioranza in Parlamento – procedura del resto correttissima –), significa che Napolitano ha percepito che la melina dei partiti non è una tattica da cui ci si debba aspettare un fulmineo contropiede capace di portare a casa il risultato, ma è segno di una stanchezza radicale della nostra politica, di una vera impotenza del potere; e significa anche che l´ultima scintilla di energia del sistema politico sta in lui, nella sua persona e nella sua carica. E infatti la sta usando per spronare ceti dirigenti riottosi, pezzi di élite riluttanti, a fare quello che dovrebbe essere il loro dovere: assumersi finalmente qualche responsabilità a fronte del potere che è stato loro demandato, di cui pare non sappiano fare uso politico, ma solo privato (cioè, in questo caso, partitico).
Il ceto politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua nazionale della politica. Quella che parla Napolitano, e che per gli uomini di buona volontà è davvero l´ultima chiamata.
La Repubblica 10.07.12