L’ accusa, sostanzialmente con la stessa domanda, arriva sia da destra, sia da sinistra: perché non si può criticare Monti? Perché davanti a ogni giudizio negativo sull’operato del presidente del Consiglio e del suo governo si viene imputati non solo di «lesa maestà», ma addirittura di tradimento della patria? Da mesi questa domanda accompagna le osservazioni polemiche di Alfano sulla riforma del lavoro, quelle di Bersani e di Vendola sui tagli alle spese e, dopo le bombastiche definizioni del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, a suon di «boiate» e «macelleria sociale», si è ripetuta con maggior insistenza e con indignato fastidio.
L’avvertimento di Monti sulle conseguenze per l’Italia, dall’andamento del famoso «spread» alle sorti del «salvaStati», delle critiche e dei distinguo che arrivano dal fronte interno, cioè dai partiti che lo sostengono in Parlamento e dalle rappresentanze sociali, non deriva, in realtà, dalla tipica insofferenza degli accademici nei confronti di chi osa mettere in dubbio le loro tesi. Nè dalle suscettibilità caratteriali di tecnici dalla pelle troppo tenera per sopportare le durezze della nostra vita pubblica. Ma dalla consapevolezza di un mutamento, profondo e importante, avvenuto negli ultimi tempi nel nostro continente: la politica europea è diventata una politica democratica. Una politica, cioè, in cui il consenso delle opinioni pubbliche è divenuto determinante. Ed è paradossale, ma significativo, che sia proprio un «tecnico», come il professor Monti, ad avvisare partiti, sindacati e imprenditori di questo fondamentale effetto della crisi finanziaria ed economica in Europa.
Fin dai primi vagiti delle istituzioni comunitarie, alla metà del secolo scorso, l’accusa nei loro confronti fu quella di un regime tecnocratico, governato da funzionari la cui legittimità non era legata al consenso popolare. Da qui, l’ostinata diffidenza per liturgie misteriche e per imperscrutabili decisioni di personaggi ciechi, sordi e muti, legati da solidarietà fondate su clan elitari e, magari, un poco inquietanti. La «burocrazia di Bruxelles» era la definizione di un potere sul quale, di volta in volta, si poteva ironizzare quando stabiliva le misure degli ortaggi, o di un potere che doveva essere a buon diritto truffato, quando pretendeva di imporre la quantità di latte che doveva essere munto dalle vacche nazionali.
Né l’elezione diretta del Parlamento europeo, a metà degli anni 70, né il progressivo allargamento, sia delle competenze comunitarie, sia dei confini della Ue, riuscirono a colmare, nell’opinione pubblica europea, quella diffidenza che si tramutava, nei casi migliori, in un diffuso disinteresse o, in quelli peggiori, in una profonda ostilità.
La vera svolta di questo atteggiamento popolare è avvenuta negli ultimi mesi. Da quando i cittadini europei si sono resi conto che le loro sorti non dipendevano più dai governanti dei loro Paesi, ma dai giudizi che prevalevano nelle opinioni pubbliche degli altri stati della Ue nei loro confronti. Perchè i leader eletti dai parlamenti nazionali non potevano, o non riuscivano, o non volevano disattenderne gli umori.
Questo mutamento ha sconvolto persino il tradizionale orientamento politico dei partiti europei. Significativo esempio di questo fenomeno è stato, nei giorni scorsi, quanto è avvenuto in Germania, dove la Merkel è stata accusata, dopo l’ultimo vertice di Bruxelles, di cedimento alle richieste di Spagna e Italia, appoggiate dal socialista francese Hollande, proprio dalla Spd, un partito socialdemocratico che, in teoria, dovrebbe essere meno severo sulla rigidità delle economie statali. Proprio perché è l’operaio tedesco, il signor Mueller citato da Monti nell’intervista ai principali quotidiani europei, che non sopporta di pagare i debiti delle cicale mediterranee nel nostro Continente.
Ecco perché è importante, di più, è determinante, far capire agli abitanti della Germania, dell’Olanda, della Finlandia che, questa volta, l’Italia i sacrifici li farà davvero, che le promesse di riduzione di spesa non verranno vanificate dalle proteste delle categorie, che gli italiani lavoreranno di più e più a lungo, che le prese di distanza dei partiti «di lotta e di governo», definizione quanto mai attuale per la strana maggioranza che dovrebbe sostenere Monti, non pregiudicheranno gli impegni annunciati a Bruxelles.
E’ vero che i mercati non hanno più confini e guardano sospettosi mosse e contromosse di quello che avviene nei singoli Stati, ma lo stesso sguardo sovrannazionale, ormai, è comune anche ai popoli dell’Europa. Poiché i leader politici di questo nostro continente all’inizio del nuovo secolo non sembrano possedere visioni lungimiranti, né l’autorevolezza per realizzarle, le opinioni pubbliche europee, con i loro giudizi fluttuanti, ma anche con i loro ostinati pregiudizi, diventano le padrone dei nostri destini. Si voleva un’Europa finalmente democratica? Ora l’abbiamo. Curioso che chi l’invocava, ora, abbia qualche dubbio.
La Stampa 10.07.12