Non si ricorda una dichiarazione di un presidente di Confindustria che sia stata sommersa da tante e così pesanti critiche come è accaduto con le parole pronunciate da Giorgio Squinzi a proposito di «macelleria sociale». Dopo la replica di Mario Monti, che lo ha accusato di far salire lo spread, le critiche più pesanti sono venute dal fior fiore dell’alta finanza, da Marco Tronchetti Provera a Luca Cordero di Montezemolo, secondo il quale le dichiarazioni di Squinzi «non si addicono a un presidente di Confindustria». Il direttore di Repubblica ha parlato addirittura di «ribellismo delle classi dirigenti», «tono sguaiato da organizzazione alla deriva», «pulsioni anarcoidi».
Ma cosa aveva detto di tanto grave il presidente di Confindustria? Queste le sue parole esatte: «Dal mio punto di vista dobbiamo evitare quella che proprio davanti al presidente io ho definito macelleria sociale, però nello stesso tempo dobbiamo razionalizzare, dobbiamo semplificare la pubblica amministrazione, perché abbiamo sicuramente delle ridondanze che vanno eliminate». Sembra incredibile, viste le reazioni, ma la scandalosa affermazione di Squinzi sulla «macelleria sociale» era tutta qui. Si sarebbe tentati di concluderne che il nostro establishment finanziario voglia dunque proprio la «macelleria sociale». Non certo per sadismo, s’intende. Magari solo perché l’alternativa è per esso meno conveniente. D’altronde, in quello stesso dibattito con Susanna Camusso da cui sono nate le dichiarazioni dello scandalo, oltre a esprimere la sua opinione sull’opportunità che nel 2013 si torni a un normale governo politico, Squinzi aveva mostrato apertura verso il sindacato, anche sulla patrimoniale, purché questa gravasse sulle persone e non sulle imprese. Posizione comprensibile: in piena crisi, si capisce che il leader degli imprenditori chieda di privilegiare impresa e lavoro per invertire la spirale della recessione e tornare a crescere. E che per questo chieda il massimo della coesione sociale e il minimo della conflittualità sindacale.
Diversa, però, è l’ottica di un’oligarchia finanziaria che ha ben
poco da produrre, abituata da tempi immemorabili a giocare alla roulette soltanto con i soldi degli altri, e la cui unica preoccupazione, di conseguenza, è che tutto resti com’è. Un’oligarchia trasversale che controlla banche e giornali, che alimenta quotidianamente le campagne contro la politica e i sindacati, che non esita a civettare persino con Beppe Grillo (a proposito di sovversivismo delle classi dominanti), quando serva a perpetuare l’attuale polverizzazione politica e sociale, unica sicura garanzia del suo potere di interdizione e ricatto su governi e maggioranze di ogni colore.
Ecco chi sono i veri anti-italiani, quelli che da uno sforzo collettivo e solidale del Paese per uscire dalla crisi hanno tutto da perdere. Sono sempre gli stessi, sono i sostenitori del modello Marchionne, sono quelli che alla guida della Confindustria avrebbero voluto il fidato Alberto Bombassei (sostenuto da Montezemolo come da Carlo De Benedetti). Sono gli ultimi giapponesi di dottrine economiche e sociali che nel resto del mondo sostengono ormai solo estremisti da Tea Party, e che giusto in Italia qualcuno ha ancora il coraggio di spacciare come «di sinistra». Sono quelli che se un tribunale condanna la Fiat per discriminazione antisindacale è «folclore locale». Quelli che non possiamo più permetterci né una normale dialettica democratica, né elementari diritti sindacali, né alcuna autonomia sociale. Quelli che non vogliono permetterci più niente, per continuare a permettersi tutto.
l’Unità 10.07.12