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"Tre mosse per dare «scacco» alla crisi", di Giuliano Amato

Non è la prima volta che una settimana inizia nel segno della speranza e si chiude nel segno della paura. Questa volta la speranza l’avevano suscitata le novità finalmente uscite dal Consiglio Europeo del 28 giugno – oltre alle misure per la crescita, l’apertura dei fondi salva-Stati al salvataggio diretto delle banche e all’intervento sugli spread a favore dei paesi “virtuosi”. La paura l’hanno fatta tornare un insieme di circostanze – i dubbi dei mercati sulla effettiva portata di queste misure, le aspettative negative che gli stessi mercati hanno letto nelle parole usate da Mario Draghi per spiegare la riduzione dei tassi al di sotto dell’1%, i dati infine sulla disoccupazione americana, che venerdì hanno dato al nero la pennellata finale. Certo si è che le Borse hanno chiuso male e gli spread sono tornati a salire.

Era tutto sbagliato, dunque? Era meglio non fare ciò che si è fatto? No, questo non me la sento proprio di dirlo. Intanto, nella situazione nella quale ci trovavamo, il non far nulla era semplicemente restare in balia delle onde. E poi ciò che si è fatto rifletteva propositi sacrosanti. Insomma l’Unione Europea è la macchina regolatoria più imponente del mondo.

È possibile che per mesi e mesi, pur adottando una rilevante quantità di nuove misure, fosse riuscita ad imbrigliare (un po’) i debiti sovrani dei suoi Stati membri, senza farsi mai percepire dai mercati più forte di loro nella partita in atto sugli spread, sul valore capitale dei titoli e quindi sulla solidità delle stesse banche che li venivano acquistando ciascuna per il proprio paese?

In gioco era qui la credibilità delle istituzioni pubbliche, nazionali ed europee, come istituzioni di governo, alle quali era lecito chiedere non di governare i mercati, ma certo di non farsi governare da loro. Questa era la sfida ed è in realtà su di essa che si è cementato l’accordo di Bruxelles, poi ribadito dall’incontro bilaterale fra il nostro Mario Monti e Angela Merkel.

Che senso ha stabilire severi programmi di rientro dal debito, ottemperare alle loro prescrizioni e poi vedere i propri tassi volare come se nulla si stesse facendo, mettendo a quel punto a repentaglio il raggiungimento dell’obiettivo? È un governo a metà quello che consente un risultato del genere ed è dunque soltanto suicida, ha sostenuto giustamente Monti, permettere alla volatilità dei mercati di governare per l’altra e decisiva metà. Il fatto si è che per governare (se stessi) fino in fondo e non cadere in balia delle mille interazioni di mercato le cose vanno fatte a loro volta fino in fondo. Facendole invece a metà si continua a governare soltanto a metà e questa, ahinoi, è la contraddizione in cui si trova l’Europa di oggi, ben consapevole di ciò che serve, ma incapace per il momento di farlo.

Parliamoci chiaro. Il giudizio dato dai mercati sulle misure del Consiglio europeo e ribadito dai tanti commenti che abbiamo letto in questa settimana non colgono di sorpresa coloro che le hanno adottate. Lo sanno benissimo anche loro che quanto deciso per le banche è ben al di sotto di una effettiva Unione bancaria e che il fondo salva stati è uno scudo di sei volte più piccolo dei debiti italiano e spagnolo che dovrebbe difendere. Il fatto si è che per fare di più, e tecnicamente è facilissimo mettere nero su bianco il di più che servirebbe, i nostri leader dovrebbero essere legati da una solidarietà e quindi da una integrazione politica di cui oggi non sono in grado di disporre, ma in assenza della quale il consenso necessario semplicemente non c’è e non si trova. Qui vengono fuori le buone ragioni di Angela Merkel, che almeno noi italiani, vecchi e convinti fautori dell’integrazione politica, dovremmo capire. Facciamo bene a spronarla perché ai suoi tassisti e ai suoi bottegai lo dica senza reticenze che la salvaguardia dell’eurozona serve a loro non meno che a noi. Ma non possiamo pretendere che in un’Europa, che ancora è Europa delle patrie, le misure finanziarie suppliscano da sole all’assenza di una integrazione politica che, oltre un certo limite, ne è invece il necessario presupposto.

Se non lo capiamo noi, di sicuro lo capiscono i mercati. A quel punto, volgono gli occhi sulle finanze pubbliche e sulle economie dei singoli stati membri e ne traggono quelle previsioni negative, che li portano poi a dipingere di nero le stesse scelte espansive di una Banca Centrale, che di sicuro sarebbe stata criticata ove mai si fosse astenuta dal farle. Non è facile tirarsi fuori da un cul di sacco come questo e non è detto che riusciamo a farlo . Ma la ragione, e l’istinto di sopravvivenza, ci dettano tre obiettivi che dovremmo proporci. Il primo riguarda l’intera eurozona ed è immediato. A partire infatti da domani i ministri finanziari dovranno confezionare i dettagli operativi delle misure decise la settimana scorsa. Se si eviteranno procedure nuove e farraginose e se, in tema di spread, Mario Monti otterrà che si rimanga il più possibile vicini alla sua proposta iniziale, con automatismi conseguenti all’accertato rispetto delle condizionalità richieste, è intanto prevedibile che almeno in parte i dubbi dei mercati vengano rimossi.

Il secondo obiettivo riguarda di sicuro noi italiani e investe le aspettative sul futuro del nostro debito. Torno qui su un tema che ho già toccato nel mio ultimo articolo, ma lo ritengo sempre più ineludibile. La nostra capacità di ridurre il nostro debito totale è infatti cruciale davanti ai rafforzati dubbi del mercato, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario sulle prospettive di crescita, fra le altre, della nostra economia. Potrebbe essere impossibile un unico, robusto intervento che faccia scendere di botto lo stock del nostro debito al di sotto del fatidico 100%. Ma potrebbe essere necessario un programma di annuale riduzione dello stock, se non altro per rendere credibili gli avanzi primari ai quali affidiamo il nostro riequilibrio. Un investitore che legga i nostri attuali documenti finanziari e veda che, tra ora e il 2015, il nostro debito totale dovrebbe scendere ben al di sotto del 120% del Pil rimanendo eguale a se stesso in valore assoluto, ha buoni motivi per dubitare che ciò sia possibile con un Pil ed entrate stagnanti. Se ha un senso allora la giusta decisione del Governo di creare nuovi fondi per la gestione e la valorizzazione del patrimonio pubblico, lo ha in questa prospettiva, alla quale, posso dirlo, lavora un gruppo di Astrid che spero possa offrire al più presto i suoi frutti.

Il Sole 24 Ore 08.07.12