Il territorio. Dopo vent’anni di successi, adesso sembra perdere importanza. Insieme agli attori politici che ne hanno fatto una bandiera. Il “trionfo del territorio” si era materializzato, in modo inequivocabile, alle elezioni politiche del 1992. Interpretato dall’avanzata della Lega Nord, che aveva segnato la crisi definitiva della Prima Repubblica. Spostando il baricentro politico del Paese dal centro alla periferia. Una tendenza rafforzata e istituzionalizzata l’anno seguente, dalla legge 81 del 1993. Che sancisce l’elezione diretta dei sindaci. E, insieme, dei presidenti di Provincia. Sette anni dopo, nel 2000, lo stesso avviene per i presidenti di Regione. Da allora, anch’essi eletti direttamente dai cittadini. Da vent’anni, dunque, l’Italia si è trasformata in uno Stato a presidenzialismo diffuso. Una Repubblica federalista, ma “preterintenzionale”. Divenuta tale, cioè, senza un disegno preciso e condiviso. Quasi per caso. Nel segno del territorio. Esibito come una bandiera, oltre che dalla Lega, dagli amministratori eletti direttamente “dal popolo sovrano”. I sindaci, appunto. Ma anche i presidenti. Di Regione. E di Provincia. Oltre metà delle Province, però, domani potrebbe “scomparire”. O meglio, essere ridotta e “accorpata”.
Le Province. Secondo le principali forze politiche, avrebbero dovuto essere “cancellate” ancora trent’anni fa. Quand’erano circa 70. Nel frattempo, però, sono divenute 107. Perché le province non sono solo istituzioni, ma, come ha scritto Francesco Merlo, “la particella del Dio italiano”. Un Dna che sancisce “una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali”. Ed è difficile
opporsi al nostro Dna. A contrastare il “provincialismo” italiano ha provveduto — o meglio, ci sta provando — il governo tecnico, guidato dal super-tecnico, Mario Monti. In base ai criteri tecnici che hanno orientato la spending review. In altri termini: la revisione della spesa. Meglio: degli sprechi. E le Province, in effetti, in gran parte erano e sono fonte di spreco. Peraltro, la spending review e, in generale, le politiche di bilancio del governo tecnico, pur senza cancellarli, hanno ridimensionato anche gli altri governi territoriali. E i loro sovrani. Regioni e Comuni. Governatori e sindaci.
Le Regioni. Pesantemente colpite dai tagli alla Sanità. Il che significa: la loro principale “missione”. D’altronde, cosa sono le Regioni se non una grande Asl, visto che circa l’80% dei loro bilanci è “saturato” dai capitoli sociosanitari?
Così i Comuni. Costretti a fare gli esattori delle imposte immobiliari, per conto dello Stato. Aggiungendovi le loro sovrattasse. Indotti, per finanziarsi, a edificare il territorio. In altri termini: a degradarlo ulteriormente. Perché gli oneri di fabbricazione costituiscono, per i Comuni, la principale fonte di auto-finanziamento.
I sindaci, così, sono divenuti “sovrani a parole”. Hanno ottenuto competenze e visibilità. Generato aspettative. Senza, tuttavia, disporre di adeguati poteri. Oggi fanno i conti con risorse — sempre più — ridotte. Hanno tradotto — e pagato — la maggiore autonomia mediante una maggiore pressione impositiva.
Certo, non è del governo Monti la responsabilità di questa tendenza. Avviata dai
governi che l’hanno preceduto. In modo, peraltro, contraddittorio. Si pensi allo sciagurato “patto di stabilità” che, negli anni scorsi, ha “premiato” i governi locali che avevano speso — e dissipato — di più. Beffando i Comuni virtuosi.
Attraverso la spending review, il governo Monti, pur senza dichiararlo, ha, però, nei fatti, decretato la fine del federalismo all’italiana. Tradotto nella moltiplicazione infinita delle Province, nel trasferimento — mediante referendum — di centinaia di comuni da una regione all’altra, in base a calcoli di opportunità e di vantaggio. Un federalismo ir-responsabile, dove i governi locali non sono chiamati a rispondere delle loro scelte. Per cui i “patti territoriali”, nel Sud, si sono spesso tradotti in meccanismi di spesa e burocratizzazione ulteriori. Questo federalismo, usato dalla Lega come una bandiera, oggi appare improduttivo e poco vantaggioso, ai cittadini. Non a caso solo una persona su cinque, oggi, ritiene che, fra dieci anni, “in Italia ci sarà un federalismo vero”. Mentre due su tre pensano il contrario (Sondaggio Demos, giugno 2012).
Così, dopo anni di federalismo a parole e di parole sul federalismo, oggi assistiamo alla ri-centralizzazione delle scelte. Alla crescente debolezza dei governi e dei governatori locali. Alla difficoltà dei soggetti politici che si riferiscono alla questione territoriale. Per prima la Lega Padana. O Nord, non importa. Assistiamo, ancora, alla centralizzazione organizzativa dei partiti. Sempre più “romani”. E alla marginalizzazione dei sindaci, un tempo, tanto tempo fa, attori politici di primo piano.
Il declino del territorio, come base del governo, della rappresentanza e dell’identità politica, tuttavia, si sta consumando senza che emergano altre soluzioni. Altre strade. Altri riferimenti. Senza che lo Stato e la politica “nazionale” abbiano assunto maggiore autorevolezza. (Al contrario). Senza che l’opacità del progetto federalista sia compensata da un progetto abbozzato, se non definito, di riforma dello Stato e del governo.
Il federalismo all’italiana, d’altronde, è avvenuto senza un’adeguata cessione di autorità e, soprattutto, risorse, dal centro alla periferia. Per cui ha prodotto e riprodotto conflitti infiniti fra Stato centrale ed enti locali.
Ma il declino del territorio, che erode l’autorità dei sindaci e dei presidenti di Regione — e di Provincia — non risolve i conflitti. Non restituisce lo scettro al sovrano. Allo Stato. Al potere centrale. Perché avviene per urgenza e necessità tecnica. Per iniziativa dei tecnici. Garanti e depositari di un potere che origina dall’esterno. Dall’emergenza imposta dalla crisi, i mercati, le autorità monetarie e finanziarie. Europee e internazionali. Qui sta il problema.
Perché se lo Stato è l’istituzione che esercita la propria sovranità e il proprio potere sul territorio, allora la dissolvenza del territorio può avere esiti ed effetti imprevedibili. Ma, certamente, insidiosi. Insieme al territorio e ai suoi attori, rischia di coinvolgere anche lo Stato. Di delineare un Paese senza centri né periferie. Riassunto in una unica, grande periferia.
La Repubblica 09.07.12