attualità, economia, lavoro, politica italiana

"Il ventennio perduto dell'Italia", di Marco Alfieri

Dagli all’Europa, che inchioda i cittadini a pagare per scelte su cui non possono decidere. In questi mesi non si sente altro: se la crisi è diventata una camicia di forza è colpa di Bruxelles e della Bce; se i governi sono costretti all’austerity di bilancio è colpa della moneta unica. Nel gran ballo mediatico l’Europa è sempre tirata per la giacca: c’è chi la critica perché avrebbe avallato alla guida dei paesi membri tecnocrati graditi ai mercati internazionali, sospendendo il gioco democratico. E chi ne vorrebbe di più per imporre alla Germania di Angela Merkel maggiore solidarietà verso la casa comune europea.

In tutti i casi è diventata l’alibi comodo dei nostri fallimenti, anche se la sua sovranità è sempre ciò che gli stati nazionali lasciano che sia. Se ci sono leader coraggiosi progredisce verso gli Stati Uniti d’Europa, dando fondamento alla moneta unica, altrimenti rincula miseramente come in questi anni.

L’impressione è che con il baratro italiano l’Europa matrigna, lo spread, la Bce e l’euro c’entrano nella misura in cui una moneta comune senza istituzioni condivise resta appesa ad ogni vento. E’ questa l’ambiguità di Maastricht. Ma la bassa crescita e le non riforme che ci espongono alla speculazione sono un problema che ci trasciniamo da 20 anni, il riflesso del fallimento della Seconda Repubblica, morta delle troppe promesse mancate di chi (destra e sinistra ognuno pro quota per gli anni di governo) ha preso in mano un paese uscito dall’abisso del 92-93, doveva riformarlo per tenerlo al passo della globalizzazione, invece lo ha ricacciato nel baratro, costringendo i tecnici a tornare in campo. Un’altra volta. Lo dicono i numeri. Se compariamo 20 anni dopo i principali indicatori del sistema paese (debito, spesa pubblica, Pil, redditi, evasione, pressione fiscale, produttività, Borsa, dualismo nordsud e commercio mondiale) scopriamo infatti che l’Italia del 2011 ereditata dal governo Monti è messa uguale, se non peggio, al terribile 1993, quando nasce in emergenza la Seconda Repubblica e, da Maastricht, comincia il lungo viaggio verso la moneta unica.

Debito pubblico
Un buco più grande nonostante 800 miliardi di euro di minori tassi
La crisi mondiale ci restituisce un paese con un debito pubblico che a fine 2011 ha toccato il 122% del Pil, 6,5 punti sopra il livello del 1993, quando il salvataggio della lira varato dai governi Amato e Ciampi avvia la ritirata dello stato imprenditore. In 15 anni (1993-2007) l’Italia ha fatto meglio di qualsiasi altro paese europeo, privatizzando 186 società e incamerando 146 miliardi di euro (il 24% di tutte le dismissioni Ue). Sono gli anni dello yacht Britannia, la leggenda delle privatizzazioni all’italiana, quando i finanzieri anglosassoni avrebbero deciso la spartizione del patrimonio industriale tricolore. Peccato che, ex post, si sia trattato di una rivoluzione mutilata: il patrimonio netto dello Stato non è praticamente diminuito e la maxi vendita si è ridotta ad una grande operazione di cassa a parziale e temporanea riduzione del debito pubblico (sceso al 103% del 2004 ma poi riesploso oltre il 120%). Soprattutto, il paese ha gettato al vento la grande occasione dei bassi tassi di interesse. «Per quasi 15 anni, fino alla prima metà del 2011 – calcola l’economista Giovanni Ferri, ex Banca Mondiale oggi membro del Banking Stakeholder Group dell’Eba – grazie all’euro abbiamo pagato tassi ‘tedeschi’. Contando un calo prudenziale dello spread di 400 punti sul periodo pre euro, si arriva a 60 miliardi di minori interessi l’anno. Ottocento miliardi nei 15 anni di bonus tedesco. Se li avessimo usati per ridurre il debito pubblico oggi avremmo un rapporto debito/Pil del 70% invece che del 120, e non saremmo nel mirino della speculazione. Per questo, un giorno, qualcuno dovrà chiedere conto ai nostri politici, di destra e di sinistra, che cosa ci avete fatto col bonus tedesco?»

Pil e redditi
Il Paese non sa più crescere: giù ricchezza e produttività
L’Italia, nord produttivo compreso, nell’ultimo ventennio ha perso per strada un punto e mezzo medio di crescita strutturale, passando dall’1,5% allo «0 virgola» degli anni duemila. La distanza accumulata rispetto agli altri paesi dell’eurozona vale circa 300 miliardi di minor ricchezza prodotta ogni anno. Se accorciamo il focus, nel 2010 il Pil tricolore era appena il 3,8% sopra il livello del 2000. Significa che in rapporto alla popolazione, nel frattempo salita del 6,2% grazie all’immigrazione, è sceso in termini reali del 2,3%. Si tratta della peggior performance tra i paesi avanzati: ha fatto +7,6% il Giappone (in deflazione da 20 anni), +9,5 la Germania, +11,8 la Francia, +16,7 gli Usa, +18,1 la Gran Bretagna. Se dunque la crisi mondiale, la speculazione e la dittatura dello spread cominciano dal 2008, la stagnazione italiana è precedente. Lo dimostra anche la serie storica del Pil pro capite: nel 1990 era del 2% inferiore a quello dei tedeschi, nel 2010 il solco si è allargato al 15%, nonostante i pesanti oneri dell’unificazione tedesca. Quello con la Francia si è ampliato dal -3 al -7%. Con Londra si è addirittura passati da un vantaggio del 6% a un delta negativo di 12 punti. Il risultato è che nel 1990 il nostro Pil per abitante valeva il 107% della media Ue, nel 2011 è sceso al 94%. «Il reddito medio annuo delle famiglie italiane nel 2010, al netto delle imposte e dei contributi sociali, risulta pari a 32.714 euro, cioè 2.726 euro al mese, una cifra inferiore in termini reali del 2,4% rispetto a quello riscontrato nel 1991», conferma Bankitalia. E ancora. Fatta cento la produttività (Pil per ora lavorata) degli Usa, nel 1990 l’Italia misurava 87. Nel 2010 è crollata a 75, 12 punti meno. Dov’è la colpa dell’euro?

Nord-Sud
20 anni sprecati aumenta il divario tra le due Italie
In termini di reddito prodotto, quello meridionale resta inchiodato al 59-60% di quello del nord Italia. Un divario cresciuto nell’ultimo ventennio (nel 1993 si attestava intorno al 63%), quando in Italia si afferma il paradigma leghista del Paese duale alla cui base c’è un dogma: il Sud è la palla al piede del Nord. Il Meridione è solo spreco e il Nord deve liberarsene altrimenti sprofonda. Una lettura dei «territori separati» che ha egemonizzato il discorso pubblico, trasformando il sud nella panacea di tutti i mali del Nord, anch’esso in crisi. Persino la stagione dei Patti per lo sviluppo promossa da Carlo Azeglio Ciampi, e la strategia di far passare le risorse finanziarie direttamente attraverso le regioni, hanno risentito di questa impostazione localista.

Quel che invece non si è interrotta è la spirale spesa pubblica buona/ spesa pubblica cattiva. Quella cosiddetta discrezionale, cioè per sussidi e servizi, fatta 100 la quota a disposizione di un cittadino del nord, è schizzata a 106 per ogni abitante del sud; quella in conto capitale, cioè per gli investimenti, fatta sempre 100 la quota girata al nord, al sud è crollata a 87. In sostanza nell’ultimo ventennio (dopo che nel trentennio 1950-1970 si era ridotto di 20 punti) non solo si è riallargato il gap Nord-Sud nelle risorse prodotte, ma si sono perpetuati i vizi nei trasferimenti dallo stato centrale al mezzogiorno: più risorse per consumi e clientele, meno per strade, scuole e infrastrutture.

Economia sommersa
Evasione fiscale invincibile anche dopo Mani Pulite
L’Italia del Dopoguerra è un paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una costituzione materiale distorta: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale; un settore privato e di piccola industria spina dorsale del paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione. Col tempo la prassi degenera: il piccolo «nero» si fa grande evasione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Dai «giovani» pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dalle casalinghe che fanno i mestieri agli insegnanti che danno lezioni private. Finchè il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, ma da fine anni 90, con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale, il Bengodi è finito. Secondo stime recenti dell’Istat, il valore aggiunto dell’economia sommersa vale tra il 16 e il 17,5% dell’intero Pil. Vuol dire che nel nostro paese ogni anno circolano abusivamente tra i 255 e i 275 miliardi non dichiarati. In termini di gettito, si tratta di almeno 7 punti di prodotto interno lordo, grosso modo 100 miliardi l’anno di mancati incassi per l’erario. Una cifra mostre, simile a quella di 20 anni fa, quando il sommerso oscillava tra il 15 e il 18% del Pil. Se poi guardiamo i redditi dichiarati da imprenditori e liberi professionisti, si scopre che in Italia il peso delle loro tasse sul totale delle imposte riscosse è sceso dal 13,2% del 1993 al 5% del 2010 per i primi, dal 7,6% al 4,2% per i secondi.

Economia sommersa
Evasione fiscale invincibile anche dopo Mani Pulite
L’Italia del Dopoguerra è un paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una costituzione materiale distorta: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale; un settore privato e di piccola industria spina dorsale del paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione. Col tempo la prassi degenera: il piccolo «nero» si fa grande evasione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Dai «giovani» pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dalle casalinghe che fanno i mestieri agli insegnanti che danno lezioni private. Finchè il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, ma da fine anni 90, con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale, il Bengodi è finito.

Secondo stime recenti dell’Istat, il valore aggiunto dell’economia sommersa vale tra il 16 e il 17,5% dell’intero Pil. Vuol dire che nel nostro paese ogni anno circolano abusivamente tra i 255 e i 275 miliardi non dichiarati. In termini di gettito, si tratta di almeno 7 punti di prodotto interno lordo, grosso modo 100 miliardi l’anno di mancati incassi per l’erario. Una cifra mostre, simile a quella di 20 anni fa, quando il sommerso oscillava tra il 15 e il 18% del Pil. Se poi guardiamo i redditi dichiarati da imprenditori e liberi professionisti, si scopre che in Italia il peso delle loro tasse sul totale delle imposte riscosse è sceso dal 13,2% del 1993 al 5% del 2010 per i primi, dal 7,6% al 4,2% per i secondi.

Borsa e made in Italy
Piazza Affari in caduta libera Export in frenata
La globalizzazione ha stravolto la mappa economica planetaria, trasferendo a Oriente ricchezza, potere e commerci. Nella classifica del commercio globale l’Italia è scesa dal 4,8% del 1993 al 3,1% del 2011, dal quinto al settimo posto. Certo la nostra forza rimane l’export. Ma secondo l’Ocse stiamo rallentando. Nell’ultimo ventennio quello italiano è cresciuto del 113% contro il 260% della Germania e il 152% della Francia. Nel 1990 le nostre esportazioni valevano il 54% di quelle di Berlino e il 96% di quello di Parigi; l’anno scorso siamo scesi rispettivamente al 32 e all’81%.

Se poi guardiamo alla Borsa, la foresta rimane pietrificata: il 40% delle aziende di Piazza Affari mantiene un’azionista di riferimento pubblico. Lo stesso numero di società quotate al 2011 (271) è fermo da un decennio. Nel 1993 erano poco meno: 222. Non basta. Tra le cosiddette multinazionali tascabili del «Quarto capitalismo», meno di 20 sono quotate. La Borsa nell’ultimo ventennio è dunque servita a fare cassa in vista dell’euro, non a creare un moderno mercato dei capitali. Il risultato è che a fine 2011 Piazza Affari, con una capitalizzazione pari al 20,7% del Pil, si colloca al 20esimo posto al mondo, preceduta anche dai listini dei mercati emergenti: Brasile (64,9% del Pil), Russia (72,8%) e Sudafrica (207%). E dire che ancora nel 2001 la piazza milanese era ottava al mondo, con una capitalizzazione pari al 50% del Pil.

Tasse
«Flat tax», il sogno tradito della Seconda Repubblica
La progressione delle tasse in Italia comincia negli anni 80, quando la pressione fiscale era del 30%, per salire al 35 a metà decennio, in parallelo all’esplosione del debito pubblico. Nel ’92, sull’orlo della bancarotta, sfonda la soglia del 40% per non tornare più indietro, anzi. Il record del 43,9% del 1997 verrà infranto alla fine di quest’anno quando le tasse saliranno all’astronomico 45,1% (+2,1% sul 2011). E ancora di più nel 2013, quando la proiezione è di un insostenibile 45,4% nominale, perché depurato dall’evasione schizza al 55% per chi le imposte è costretto a pagarle fino all’ultimo centesimo.

Solo negli ultimi 7 anni, tra il 2005 e il 2012, la pressione fiscale è salita di 4,7 punti di Pil. In media un punto di tasse in più ogni 532 giorni. Altro che aliquota unica Irpef al 33%, la mitica «flat tax» annunciata dal Berlusconi del 1994, scritta a chiare lettere nel programma economico firmato Antonio Martino che tanto fece sognare gli italiani. Se analizziamo la speciale classifica del salasso, calcolata sull’arco temporale 1995-2011, le rispettive coalizioni che si sono alternate al governo ,si sono praticamente equivalse: una media pressione fiscale del 42,6% per i governi di centrosinistra, una media pressione fiscale del 42% per i governi di centrodestra. Entrambi, liberisti immaginari!

Spesa pubblica
Il trionfo del partito unico della spesa (corrente)
Nell’ultimo decennio la spesa pubblica primaria, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di 141,7 miliardi di euro (+24,4%). Toccando, nel 2010, quota 723,3 miliardi (46,7% del Pil), pari a 11.931 euro spesi per ciascun cittadino (1.875 in più rispetto al 2000). Nel 2011 lo stato ha invece speso il 45,5% del Pil, superando il livello del 1993 (43,5%).

La cruda verità è che nella Seconda Repubblica si è fatto pochissimo per intervenire sui flussi di spesa pubblica. Tranne il governo Ciampi (-0,54% nel biennio 93-94) e il primo Berlusconi (-1,20% nel 94-95), tutti gli esecutivi l’hanno aumentata: +6% il Prodi 96-98, addirittura +16,9% il Berlusconi 2001-2006, intaccando l’avanzo primario, fondamentale nei paesi ad alto debito per garantire la sostenibilità dei conti. Non solo. In questo ventennio la forte riduzione della spesa per interessi si è accompagnata ad un’esplosione delle uscite correnti, per quasi 2/3 fatte da stipendi della Pa e prestazioni sociali. In un raffronto impietoso 1995-2012 fatto dall’Eurostat, l’Italia è il paese che ha registrato la maggior crescita cumulata di spesa corrente primaria: +5,9% contro il 3,6% della Francia, il 3,3% della Spagna, il -0,8% della Germania e una media dell’Eurozona pari al 2,2%. Troppe cicale al governo e troppo poche formiche.

La Stampa 08.07.12