Puntuale come un orologio svizzero, si sarebbe detto una volta, ecco arrivare l’ennesimo “taglio” al sistema universitario. Mentre per settimane ci si è interrogati sul merito, sulla crescita, sullo sviluppo; si è dibattuto sull’ingresso dei giovani nel sistema della ricerca con nuove procedure; si sono organizzati fior di convegni nei quali ci si è riempita la bocca con espressioni trite e ritrite come la famigerata «economia della conoscenza», la famosa «cultura come motore di competitività», le mitiche «università come driver per lo sviluppo» e via dicendo, chi stava preparando la spendig review si è limitato a fare quello che hanno fatto i ministri delle Finanze del passato.
Semplice: la cultura, la ricerca, le università in questo Paese? Comprimibili. E quindi si tagliano, ieri in favore degli autotrasportatori, oggi per le scuole private o per l’Ici (peraltro ripristinata). Tutto è meno sacrificabile. Non importa quanti tagli abbiano subito in passato. Le università si fanno valutare e ricevono fondi di conseguenza (tra le poche amministrazioni pubbliche in Italia). Benissimo. Ma come si può parlare di valutazione se non ci sono le condizioni oggettive per produrre i livelli richiesti, dalla didattica alla ricerca?
L’internazionalizzazione: già con i tagli subiti gli atenei non sono più nelle condizioni di pagare le missioni all’estero, la partecipazione ai congressi internazionali, figuriamoci gli scambi, le collaborazioni e le ricerche! Qui non ci sono orientamenti politici o ideologie che tengano. Era stato detto in sede autorevolissima «niente più tagli lineari»? Acqua passata, preistoria. Dall’economia della conoscenza alle economie sulla conoscenza.
La proposta che sta girando in vista del Consiglio dei ministri di venerdì prossimo è di togliere altri 200 milioni di euro al finanziamento ordinario degli Atenei, accompagnata dall’impresentabile provvedimento di destinare quegli stessi 200 milioni alle scuole private. Le scuole private. Nemmeno Tremonti era arrivato a tanto! Anzi, l’allora ministro delle Finanze, dopo aver minacciato nel 2010 “tagli” micidiali, era tornato sui propri passi e a più miti consigli.
Per capire come stanno le cose facciamo due conti. Il finanziamento delle università statali per il 2013 è fissato a 6,514 miliardi; nel 2009 era di 7,485 miliardi. Come si vede la spending review alle università è stata già applicata, molto prima dell’intervento del “commissario tagliatore”, come lo hanno ribattezzato alcuni giornali. Ed è stata applicata duramente: quasi 1 miliardo in meno, un taglio in tre anni di circa il 13%. Cui si è affiancata una drastica riduzione degli organici passati da circa 60 mila a 50mila unità, con un bassissimo indice di sostituzione per turn-over. Le spese per stipendi e le obbligazioni per legge (in sostanza soldi già vincolati alla fonte) ammontano per il 2013, secondo un calcolo della Conferenza dei rettori, a 6,4 miliardi di euro tutto compreso. Dunque, come più volte sostenuto, una situazione ai limiti del collasso, con un margine di finanziamenti “liberi” rispetto ai trasferimenti dallo Stato pari a poco più dell’1%. Su questo 1% dovrebbero gravare le nuove assunzioni (si sono appena avviate le nuove abilitazioni), gli acquisti di beni e servizi (attrezzature per laboratori, libri, computer), le spese edilizie.
Poi ci si stupisce che i ricercatori italiani fanno scoperte come quella annunciata ieri della “particella di Dio” all’estero. Come competiamo in Europa a queste condizioni? E come possiamo vincere un campionato se giochiamo in 7 e non in 11? Nemmeno alle qualificazioni arriviamo. Se togliamo altri 200 milioni di euro siamo alla bancarotta. Dopo la drastica cura dimagrante, per il 2013 si sarebbe dovuto ripristinare un minimo di vivibilità restituendo al sistema 400 milioni per rimetterla in pista e limitarsi a confermare il finanziamento del 2012 (non un euro in più). Sembrava ci si fosse finalmente resi conto che i Paesi oggi con i più alti tassi di crescita, nei momenti di crisi, anziché tagliare, hanno investito in ricerca.
Oggi l’università va sostenuta, non uccisa. I fondi vanno aggiunti, non tolti. Altrimenti questo sventurato Paese (che sta applicando al pubblico impiego norme “greche”) precipiterà rapidissimamente alle ultime posizioni di qualunque classifica: altro che valutazione, efficienza, internazionalizzazione e ranking degli atenei di cui si compiacciono molti giornali (magari sbagliando come è accaduto su Repubblica)! Vogliamo sperare che non ci si limiti a contemplare questo scempio. Le università non potranno e non dovranno farlo.
* Presidente della Conferenza dei rettori
l’Unità 05.07.12