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Napolitano: “Ecco perché l’Italia deve farcela in Europa si aprono nuove strade si vada verso l’Unione politica”, di Eugenio Scalfari

Con il Presidente abbiamo concordato di scambiarci idee e opinioni su quanto sta accadendo in Italia e in Europa ed io metterò in carta i suoi pensieri e le sue valutazioni, ma non sarà un compito facile con i tempi che corrono e la crisi che continua ad infierire ormai da quattro anni.
L’auto è arrivata al Castello. Girando a destra si va verso il mare, a sinistra una breve salita conduce alla residenza. Ci sono stato molte volte con Sandro Pertini, con Cossiga, con Ciampi ed anche con Napolitano due o tre anni fa.
Ora siamo arrivati. Napolitano mi viene incontro e mi conduce in una piccola stanza. In un tavolo c’è la televisione, accanto alla finestra che guarda sul prato un tavolinetto con due sedie. Chiedo il permesso di togliermi la giacca, lui m’aiuta a sfilarmela; indossa una maglietta azzurra, io resto in maniche di camicia. Ci sediamo e la nostra conversazione comincia.
Non posso tuttavia esimermi dal chiedergli le sue reazioni ad una vera e propria campagna che è stata lanciata contro di lui partendo da telefonate al Quirinale, che sono state intercettate, dell’ex ministro e vice Presidente del Csm Nicola Mancino.
Giorni fa Napolitano è intervenuto direttamente, ha fornito i chiarimenti che gli erano stati richiesti da varie parti ed ha messo per quanto lo riguarda la parola fine a quella polemica, “costruita sul nulla”. «La correttezza dei miei comportamenti ha trovato il più largo riconoscimento. Ho perfino resa pubblica la lettera da me inviata al Procuratore generale della Cassazione cui sono attribuiti precisi poteri per il corretto andamento dell’amministrazione della giustizia ».
Ma torniamo ai temi essenziali. Alcuni ritengono che i poteri del Quirinale abbiano registrato una forzatura in questi mesi. Come se ci fosse stata, in quest’ultima fase del settennato di Giorgio Napolitano una sorta di accentuazione presidenzialista a detrimento dei partiti e del Parlamento. È così? A me non pare, ma ho davanti a me l’autore di questa supposta forzatura. Lui che ne pensa?
Lui comincia con una constatazione comune a molti studiosi: quando il potere politico è forte il ruolo del capo dello Stato resta ben circoscritto, quando la politica è debole esso naturalmente si espande.
«Sai — mi dice — in questi sei anni al Quirinale ho potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia forse il capo di Stato europeo dotato di maggiori prerogative. I Re, dove ancora ci sono, sono figure importanti storicamente ma essenzialmente simboliche. Gli altri capi di Stato “non esecutivi” hanno in generale poteri molto limitati. Il solo al quale, oltre a rappresentare l’unità nazionale, la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi è quello italiano. Naturalmente il presidente francese ha prerogative di rilievo molto maggiore ma in Francia c’è una forma di presidenzialismo, la nostra invece è una Repubblica parlamentare la cui Costituzione però ha riservato al Quirinale un peso effettivo. Penso sia stata una scelta molto meditata dei padri costituenti».
Domando quale sia il suo ruolo e lui spiega: sollecita quella “leale cooperazione istituzionale” che deve essere un criterio costante nei rapporti tra i vari poteri dello Stato e le diverse articolazioni della Repubblica. Presiede l’organo di autogoverno della magistratura; presiede il Consiglio Supremo di difesa che si riunisce periodicamente con la partecipazione del Presidente del Consiglio e dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. Inoltre il Presidente nomina i senatori a vita, 5 dei 15 giudici della Corte Costituzionale e concorre alla scelta di membri di altre istituzioni pubbliche secondo quanto previsto da disposizioni di legge. Ma soprattutto spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere anticipatamente le Camere quando esse non siano più in grado di esprimere una maggioranza e di svolgere correttamente la loro funzione e spetta a lui la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, dei ministri.
Così dispone la nostra Carta, gli dico, ma tu sai bene che questo fondamentale potere di nomina è stato rarissimamente esercitato. Certo che lo sa. La prima volta lo esercitò Luigi Einaudi. Era l’agosto del 1953. Einaudi si era ritirato nella villa di Caprarola e chiamò Giuseppe Pella, ministro del Tesoro del governo dimissionario. Gli comunicò che l’aveva nominato presidente del Consiglio. Lo pregò di mettere al Commercio Estero l’economista Bresciani Turroni e gli chiese di portargli la lista dei ministri entro i successivi tre giorni.
La Dc fu presa alla sprovvista; votò la fiducia a Pella ma definì “governo amico” quello da lui presieduto. Una forma di distacco? Risponde: «Il governo non può mai essere pertinenza esclusiva di un partito. È un’istituzione, il governo, e risponde a tutti gli italiani. Naturalmente deve avere la fiducia di una maggioranza parlamentare che lo consideri un governo da sostenere attivamente. Quando non fosse più così, le Camere lo sfiducerebbero. Questo è il funzionamento corretto dì una democrazia parlamentare: il capo dello Stato nomina tenendo ben presente che il governo dovrà avere la fiducia del Parlamento ».
Bene. Questa prassi è stata sempre rispettata? Vediamo. Fu seguita da Scalfaro quando nominò Ciampi nel ’93 e poi quando nominò Dini un anno dopo. Poi da te nello scorso novembre quando nominasti Monti dopo averlo nominato senatore a vita. «Per nominarlo senatore a vita c’era bisogno della controfirma di Berlusconi che era ancora a Palazzo Chigi. La diede subito». Insomma, la Costituzione esiste da 65 anni e per un atto importantissimo com’è la nomina del capo del governo è stata rispettata solo quattro volte. Qui il Presidente obbietta: «Intendiamoci, è normale, nelle democrazie parlamentari, che sia il partito cui gli elettori abbiano dato la maggioranza, anche se solo relativa, in Parlamento, a esprimere il Primo ministro. Quel partito, in Italia, è stato per oltre 40 anni la Democrazia Cristiana; e se in due occasioni (1981 e 1983), a formare il governo di coalizione imperniato sulla Dc fu chiamato un non democristiano, molto pesò la valutazione e propensione del capo dello Stato, anche in rapporto agli equilibri politici interni alla coalizione. Altro furono i quattro casi da te citati, nei quali il Presidente della Repubblica dové esercitare il suo potere per dare soluzioni a delle crisi politiche senza sbocco».
Gli ricordo che cosa sia stato il fenomeno della partitocrazia. Risponde: «Pressioni abnormi dei partiti sono state a lungo esercitate, più che per l’individuazione del capo del governo, per la nomina dei ministri (già con Einaudi Presidente) e soprattutto per la spartizione degli incarichi negli enti pubblici e nel sottogoverno, in una condizione — per di più — di democrazia bloccata fino agli anni ’90».
Napolitano ritiene i partiti insostituibili; il loro ruolo è previsto in Costituzione: contribuiscono con metodo democratico all’indirizzo politico del Paese e sono il raccordo tra il popolo e le istituzioni. Ma per farlo devono oggi profondamente rinnovarsi e operare in modo trasparente, non possono e non debbono incombere sulle istituzioni.
La nomina di Monti è stata un’innovazione, ma oggi? Che cosa accadrà dopo Monti? Si ricomincerà col predominio dei partiti?
Arriva una telefonata e lui risponde brevemente. Stiamo chiacchierando da un’ora e gli domando se gli dà noia il fumo. «Clio fuma spesso, lo sai». Così accendo anch’io. «Vuoi fare due passi in giardino?». Meglio no, gli dico, non siamo forti di gamba nessuno dei due. Tu però non porti neanche il bastone. Telefona a Clio che ci aspetta in riva al mare per il pranzo. Le dice che abbiano ancora una mezz’ora di lavoro. Poi riprendiamo, ma parliamo di Sraffa e delle lettere di Gramsci. Lui era divenuto amico di Sraffa negli anni ’60, l’aveva conosciuto attraverso Giorgio Amendola e andava a trovarlo ogni tanto al Trinity College a Cambridge. Sraffa aveva incontrato Gramsci da giovane a Torino e gli era rimasto legatissimo nei lunghi anni del carcere. Il giovane Gramsci aveva anche scritto su “Ordine Nuovo”, ed era in rapporto con Piero Gobetti. Vedi, gli dico, lì i liberali si incontrarono con i comunisti. «Sì, diciamo però che Gobetti era un liberale molto
sui generis». Diciamo pure che anche Gramsci era un comunista fuori ordinanza. Mi racconta come riuscì a convincere Sraffa che custodiva una parte importante della corrispondenza gramsciana, a depositarla presso l’istituto che porta quel nome. Sraffa non si fidava.
Chiese garanzie. Giorgio gliele dette in nome del partito e Sraffa si convinse. Intanto la mezz’ora è passata e lui ritelefona a Clio per spostare il pranzo alle due.
Mi sembra venuto il momento di parlare dell’Europa. «Non mi domandare se ce la faremo. Io so soltanto che dobbiamo farcela». Sì, ma come? «Hanno provato ad aprire nuove strade, e con successo, a fine giugno a Bruxelles Monti, Hollande, Rajoy, Draghi e altri». La Merkel secondo te come si muove? Terreno scivoloso. Un capo di Stato non dà giudizi sul cancelliere della Germania parlando con un amico che poi scriverà. Ma lui qualche cosa la vuole dire: «Nei diversi scambi di opinioni che ho avuto in questi anni con la signora Merkel, si è sempre espressa reciproca comprensione e fiducia tra noi. Sono in giuoco questioni complesse, si sono manifestati disaccordi non lievi, ma il rapporto tra l’Italia e la Germania, e quindi tra i due governi e le rispettive rappresentanze e opinioni pubbliche, rimane un pilastro fondamentale della costruzione europea». Napolitano ha incontrato pochi giorni fa l’ex cancelliere Schmidt, governò la Germania per molti anni, è stata una delle figure che fanno parte del pantheon nazionale ed europeo come Adenauer e come Kohl. Schmidt parla della solidarietà europea come di una necessità assoluta e sa bene come per uscire dalla crisi occorrano, nel rispetto delle discipline di bilancio, investimenti pubblici e interventi che mettano al sicuro il sistema bancario europeo. Nei giorni scorsi si sono in effetti prese da parte del Consiglio Europeo e dell’Euro Summit decisioni significative in questo senso. E non c’è bisogno di essere di sinistra per apprezzarle. Keynes era un liberale, Beveridge era un liberale, ma il primo, per dominare la crisi rilanciando la domanda, volle a suo tempo l’intervento pubblico, e l’altro tracciò, già alla fine della seconda guerra mondiale, le linee del welfare state.
«Io posso citare Luigi Einaudi, a te che sei liberale farà piacere. Ad esempio, l’Einaudi delle “Lezioni di politica sociale”. La libertà è un principio fondamentale e l’eguaglianza pure: così si costruiscono le libere società e si fa crescere la democrazia».
Appunto. Da tempo ho la sensazione che Napolitano, da Presidente della Repubblica, sia più attento al pensiero di Einaudi. Ad un certo punto mi ha ricordato una pagina dello “Scrittoio del presidente” sulla quale Einaudi scrisse che uno dei suoi compiti era quello di trasmettere intatte le prerogative costituzionali del capo dello Stato ai suoi successori. Questo è anche l’impegno di Napolitano, non ne fa un mistero anzi lo considera un dovere.
Gli domando se è favorevole allo Stato federale europeo, lui che rappresenta lo Stato italiano. Certo, bisogna muovere in quella direzione senza remore e tabù. «Gli Stati nazionali, dice, garantiscono una tradizione, una cultura, una storia, ma soltanto l’unione politica dell’Europa, secondo l’originaria ispirazione federale, garantisce la speranza del futuro». C’è chi vuole uscire dall’euro. «Sciocchezze o peggio pura demagogia».
Gli pongo l’ultima domanda: si può passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale con un emendamento e nel quadro delle modifiche previste dall’articolo 138? La risposta è un secco no a ogni approccio improvvisato e parziale. «Non mi pronuncio nel merito di progetti volti a cambiare l’architettura costituzionale, ma occorre in ogni caso una visione ponderata dei nuovi equilibri da stabilire tra le istituzioni e tra i poteri, una visione ponderata alla luce di fondamentali principi e garanzie. È stata appena presentata la proposta della elezione di un’Assemblea costituente, e dopo trent’anni di tentativi abortiti di riforma costituzionale non si può negare che questo approccio abbia una sua motivazione. Tocca al Parlamento valutare quella e altre proposte».
Montiamo in macchina e finalmente raggiungiamo Clio a tavola. Parliamo di comuni amici. Di vacanze. Lui ne farà poche. Di solito va a Stromboli e poi sta qui. Finché tocca a lui, deve stare al pezzo. «Però conto i giorni alla rovescia fino al maggio del ‘13». Tu sai come la penso, gli dico. Ma mi ferma subito. Prendo congedo con un “a presto” reciproco.
Durante il ritorno a Roma rimugino su quanto ci siamo detti. L’Europa si può suicidare? Sembra impossibile ma un colpo può partire per caso ed esser fatale, perciò con le pistole politiche e mediatiche non bisogna giocare.
Quando ci siamo lasciati, Giorgio mi ha regalato il “Doppio diario” di Giaime Pintor, una copia sua con molte sottolineature. Una frase (della lettera al fratello Luigi) sottolineata due volte è questa: «La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d’una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo».
Questo è un testamento: Giaime morì poco dopo mentre attraversava le linee tedesche. Era il 1943 e lui aveva 24 anni. Vale la pena di ricordarla la storia di quel giovane e insegnarla ai giovani d’oggi. Quella “corsa verso la politica” di cui egli parlava condusse alla libertà e alla democrazia. Dove mai può condurre – si chiede Napolitano – il fenomeno opposto, la allarmante tendenza attuale a una “fuga dalla politica”?

La Repubblica 05.07.12