E’ vero questa volta quello che dicono un po’ tutti, il recente vertice di Bruxelles marca indubbiamente un passaggio di fase.
Se ne sono sottolineati fin qui gli effetti macroeconomici, sia a livello nazionale, sia a quello sovranazionale. L’attenzione andrebbe portata sugli effetti di quadro politico, interno. La situazione in certo modo si stabilizza. Si squadernano, davanti a noi, questi dieci mesi, di qui alle elezioni politiche. La proposta per un’alternativa a sinistra da offrire al Paese, ha questo tempo per organizzarsi. Pensare strategicamente e operare nella congiuntura misurano qui le loro necessarie compatibilità.
Più d’uno i livelli: distinti, ma intrecciati. L’attività parlamentare vive l’urgente bisogno di recuperare una sorta di legittimità perduta: credibilità, fiducia, efficacia, decisione. La parte a sinistra dell’emiciclo ha il compito certo di contribuire responsabilmente all’uscita dalla fase acuta della crisi economico-finanziaria, ma ha un compito supplementare: contenere, quanto più possibile, i danni, i disagi, a volte le ferite, che le misure da prendere infliggono al suo popolo. Qui, il dialogo quotidiano con il fondo del Paese reale e forme periodiche di vera e propria concertazione con le forze sindacali, diventano indispensabili.
Poi, c’è il terreno politico-istituzionale. La volontà di un’autoriforma di sistema va messa in campo con più coraggio. Primo, nuova legge elettorale, subito. Secondo, quel minimo di modifiche costituzionali, possibili, in questo tempo, che per esse è molto breve, senza quei macroscopici stravolgimenti, agitati più per propaganda che per reale effettualità.
La vera legislatura costituente sarà la prossima. Ed è indubbio che bisognerebbe inventarsi una sede inedita in grado di approntare una proposta finalmente complessiva. Ragionevole, mi sembra, l’idea, di grande valore simbolico, che sta circolando: una Commissione dei Settantacinque, chiamata a istruire la materia. Da precisare forse in questo modo: personalità autorevoli, non elette direttamente, ma indicate dai partiti, prese dal loro bacino di competenze, proporzionalmente alla rappresentanza conquistata nelle prossime elezioni politiche. Al nuovo Parlamento quindi l’assunzione, la possibilità di modifica, l’approvazione della proposta. Vedo conseguenze virtuose: i partiti riprendono la loro funzione dirigente, in sintonia con la capacità di utilizzare una tecnicalità, questa volta politica, di alto livello. C’è anche qui il bisogno di fermarsi davanti a un baratro: un default istituzionale, per eccesso di domanda antipolitica.
Ma quanto detto fin qui è solo la premessa del vero discorso che voglio fare, spostando l’asse di ragionamento, che si è riaperto su alleanze, coalizioni, in Italia, per l’Europa. I gruppi parlamentari dell’attuale centro-sinistra sono perfettamente in grado di gestire al meglio quelle urgenze sociali e istituzionali, senza bisogno di consigli da mosche cocchiere. C’è invece un secondo fronte piuttosto da aprire. Lo dico in una frase, che poi va spiegata: per un centro-sinistra diverso è indispensabile una sinistra diversa. I dieci mesi vanno anche impiegati per definire una mappa di percorso che miri a delineare la forma organizzata con cui il progetto di governo della sinistra si presenta di fronte al paese. Il dopo ’89 ha consegnato alla cosiddetta seconda Repubblica e questa ne ha fatto un motivo quasi costituente la teoria e la pratica delle “due sinistre”. Se è vero che queste due cose seconda Repubblica e due sinistre stavano insieme, allora insieme cadono. Il terremoto che ha devastato l’Italietta berlusconiana ha messo a nudo anche queste rovine. Ma direi di più. È tutta la fase neoliberista del capitalismo-mondo che ha prodotto e tenuto in piedi quella teoria e quella pratica. Da un lato la radicalizzazione movimentista no-global e new-global, dall’altra le Terze Vie e il neue Mittel. Nemmeno antagonisti e riformisti, piuttosto contestatori e liberisti. Fallimentari sia lo scontro nelle piazze, sia la coalizione al governo. Due entità, infatti, imprecise, e provvisorie, non autonome, incapaci di vera autonomia, culturale e politica, sia l’una che l’altra, vittime o delle proprie parole d’ordine o dei propri atti gestionali. Chiediamoci, realisticamente, se questa separatezza, con queste conseguenze, abbia ancora senso. E chiediamoci se il popolo della sinistra è ancora disposto a sopportarla.
Due no, rispondono a queste due domande. Dunque: bisogna fare qualcosa. Il processo va aperto, senza ansie di prestazione, con rigore, con metodo, tenendo fermo l’obiettivo, nei tempi necessari. L’atto conclusivo va messo a dopo le elezioni, ma il processo le deve attraversare, perché è un momento di chiarezza, e di mobilitazione. Le vere primarie sono queste: non la scheda con questo o quel nome, ma una grande partecipazione, dal basso, al dibattito sul destino strategico della sinistra: che cos’è, che cosa è stata, che cosa deve essere, quale forma deve prendere, quali risposte, quali proposte. La fase è favorevole. La crisi paradossalmente aiuta, perché fa vedere le contraddizioni di sistema, la debolezza delle attuali classi dirigenti, la necessità, l’urgenza, di sostituirle. E spinge il vento d’Europa, che cambia direzione, dalla Francia verso di noi, ma non solo per mettere meglio a posto i conti, piuttosto per cominciare a fare i conti con i veri responsabili dello sfascio attuale delle economie, delle società, delle istituzioni, della politica.
Insomma, veniamo tutti dallo stesso spettacolo e le metafore vengono spontanee. Forse è il momento di cambiare schema di gioco. Non si può rifare la stessa partita. È cambiata, tra l’altro, la squadra avversaria. Non c’è più da metter via Berlusconi. La cosa è un po’ più seria. Dobbiamo proprio riadattarci al programma minimo? Monti al posto che fu di Prodi? Grazie, abbiamo già dato. Il nostro popolo si merita finalmente qualche cosa d’altro. È sempre solo a quello che bisogna guardare, fisso negli occhi, per capire, e per fare.
l’Unità 05.07.12