Possiamo fare come lo struzzo e nascondere la testa in quei 98mila nuovi occupati in più a maggio, ma è una pagliuzza rispetto alla trave della disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni che ha polverizzato ogni record (36,2%) ed è lì a rivelarci impietosamente tutti i nostri fallimenti. Né può consolare gli avventizi neofiti del mercato del lavoro quel 10,5% di disoccupati under 24 rispetto alla loro fascia di età, se lo confrontiamo con l’altra faccia della medaglia dell’occupazione, che sono i giovani occupati tra i 15 e i 24 anni, da tempo in discesa libera, che hanno raggiunto drammaticamente quota 18,6%. Vuol dire che più di quattro giovani su cinque sono fuori dal mercato e dal processo produttivo, nel migliore dei casi studiano o sono nella schiera dei Neet (Not in employment, education or training) o hanno rinunciato a cercare. Maldestri campioni del made in Italy sostengono che noi siamo meglio messi in Europa, che anche gli altri soffrono.
I giovani senza lavoro nel Vecchio continente sono oltre 5,5 milioni. Se in Italia oltre un giovane sui tre che cercano un lavoro è disoccupato, ci battono solo Grecia e Spagna, i campioni dello spread (oltre il 50% di disoccupazione giovanile), mentre i più virtuosi sono i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi, compresi tra l’8 e il 9% di disoccupazione giovanile. Forse dovremmo mandare i nostri governanti degli ultimi 10-15 anni a studiare le politiche deipaesi più amici dei giovani e capiremmo che in quei paesi gli under 25 sono la priorità. In Italia invece sono il segno dell’impotenza, la cartina di tornasole della cattiva volontà di una classe dirigente di gerontocrati, legati come cozze ai loro privilegi. Certo l’anagrafe alla fine vincerà, ma intanto lo spreco di speranze, di risorse e di futuro grida vendetta e dovrebbe farci vergognare. Eppure i rimedi, il pentagramma delle cose da fare è sotto gli occhi di tutti. Le voci dell’agenda si chiamano scuola, università, orientamento, lavoro, culture. Il distacco della scuola dal mondo del lavoro è abissale. Certo vi sono esempi eroici di contatto tra mondi che non si amano, ma sono ancora una goccia rispetto ai bisogni. Stage, concorsi, alternanza, apprendistato sono strumenti che in altri paesi rappresentano la norma, mentre in Italia suscitano lo scherno degli scettici. Le università per legge dovrebbero fornire servizi di placement ai propri studenti, ma quelle che lo fanno davvero si contano sulle dita di due mani. L’orientamento è una cosa troppo seria per essere lasciato nelle mani delle famiglie, degli insegnanti o delle compagnie di giro, che stipano i ragazzi in sale cinematografiche altrimenti vuote e infliggono loro lezioni sul nulla.
I disorientati salgono in cattedra e pontificano sermoni che sono elio allo stato puro, mentre i ragazzi non vedono l’ora che squilli la campanella. Dovremmo cominciare a capire che l’orientamento si divide in tre, dovremmo ricominciare da tre bussole per i giovani: una riguarda l’orientamento scolastico, una l’orientamento professionale, l’altra la relazione d’aiuto con i singoli soggetti, che non sono categorie ma persone. Invece, cinicamente, mandiamo i giovani allo sbaraglio, con la scusa che tanto prima o poi dovranno imparare a nuotare, o a camminare con un cappuccio in testa. Un malsano sadismo pedagogico si sostituisce alla relazione d’aiuto, che richiede fatica, rispetto, competenza. Infine, il lavoro. Che dire di una riforma del lavoro che giustamente punta le sue carte sull’apprendistato quando le regioni sono inadempienti e si trincerano dietro un federalismo di facciata. Che dire del modello culturale della formazione professionale in Italia che, unico paese in Europa, la divide in 20 sottosistemi sordi, tra loro gelosi e corporativi.
Il risultato è quello di allontanare i giovani dal lavoro e dal lavoro manuale, da quelle tradizioni industriali e artigianali che continuano a reclamare posti vacanti. Che dire di una visione del lavoro ottocentesca, che riesce a immaginare solo mestieri da subordinati e dipendenti. Mentre il futuro è degli intraprendenti, di coloro che se lo costruiranno, di quelli che, nonostante i troppi cattivi maestri, preferiranno fare da soli.
La Stampa 03.07.12