Sei mesi di polemiche, trattative, colpi di mano, «paccate», frenate e accelerazioni. Sei mesi di Elsa Fornero. Perché se le riforme portano spesso il nome dei loro ministri, questa lo farà in particolare. Il disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro votato ieri definitivamente dalla Camera è legge. Era nato a gennaio con la trattativa a zig zag con le parti sociali, era diventato disegno di legge il 4 aprile dopo essere stato licenziato «salvo modifiche» dal Consiglio dei ministri. Dopo quasi altri tre mesi viene approvato con poche, ma significative modifiche. Cambia dunque il mercato del lavoro in Italia, cambiano gli ammortizzatori sociali, la flessibilità in entrata e in uscita. E proprio ad evitare una eccessiva personalizzazione, la ministra ieri è rimasta quasi silente. Nell’aula della Camera tutti gli occhi erano per lei. Ha assistito imperterrita alle dichiarazioni di voto, sempre scortata nella fila di scranni inferiori riservata al governo dal viceministro Michel Martone.
MINISTRA IMPERTERRITA La ministra non ha dato segni di contrarietà neanche davanti alle parole al vetriolo di Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori l’ha definita sostanzialmente «asina» dando a lei e al governo Monti degli «abusivi, truffatori e ricattatori» e neanche quando il leghista Massimiliano Fedriga le si è rivolto dicendo «noi le chiediamo la verità non le lacrime», riproponendo il tormentone del pianto quando fu approvata la riforma delle pensioni. Fornero in alcuni momenti si è brevemente intrattenuta con Piero Giarda, ma sempre attentissima agli interventi dei parlamentari. Poi, all’insegna del basso profilo anche la conclusione della giornata, con il voto che ha dato il fatidico disco verde alla riforma del lavoro. Il tempo di raccogliere le carte e quando viene proclamato il voto, il ministro Fornero è già piedi per uscire dai banchi del governo. Le uniche parole al riguardo erano arrivate in mattinata quando, parlando al Rapporto annuale dell’Inail che certificava come il 68% dei nuovi contratti nel 2011 fossero a tempo determinato, Fornero aveva preannunciato che il monitoraggio della riforma del mercato del lavoro «dovrà essere molto serio, direi scientifico» e non affidato a metodi politici. Correzioni delle norme sono sempre possibili, ha ribadito, perché «norme perfette non esistono».
METÀ PDL NON VOTA La Camera dunque alle 18 e 44 ha approvato la riforma. I “Sì” sono stati 393, i “No” 74 e gli astenuti 46. Un risultato molto inferiore alle quattro fiducie sui singoli capitoli della riforma e che ha visto quasi metà del gruppo del Pdl non partecipare al voto o astenersi. Dopo che il capogruppo Fabrizio Cicchitto aveva intimato al governo di «non abbattere più la mannaia della fiducia su di noi», dai tabulati della votazione si scopriva che sul provvedimento finale ben 87 deputati del partito di Angelino Alfano non avevano votato a favore del disegno di legge. Del gruppo alla Camera fanno parte 209 deputati. Tra questi 7 hanno votato contro, 34 si sono astenuti, 11 erano in missione, 35 non hanno partecipato al voto. Per il Pd poco prima aveva parlato Marianna Madia, giovane deputata che subito ha sottolineato le aspettative che la riforma aveva prodotto. «Quanto le giovani generazioni hanno atteso questa riforma! ha esordito Sento parlare di scambio fra la difesa dell’articolo 18 a scapito di un’incisività maggiore contro la precarietà: ma la mia generazione ha spiegato rivendica il diritto a non essere licenziata perché non è attraverso il deterioramento dei diritti che si esce dalla crisi. Rimangono tante tipologie contrattuali, ma attesta Madia i passi avanti ci sono e sono molti, dal riconoscere l’eccesso di precarietà che va contrastata». La chiusura è stata in chiave europea: «Una prospettiva di miglioramento delle condizioni lavorative per le nuove generazioni può venire solo in sede europea, per questo saremo tutti con Monti nella difficile trattativa che lo aspetta». PRESIDIO CGIL Fuori dall’aula il clima era molto più arroventato. Da due giorni il presidio Cgil davanti alla Camera contestava la decisione del governo di apporre la fiducia sulla riforma. Ieri pomeriggio si sono uniti anche alcuni attivisti dell’Usb e dei sindacati di base, sgomberati dalla vicina piazza Santi Apostoli. La convivenza non è stata pacifica: urla e fischi hanno accompagnato gli interventi dei rappresentanti Cgil (chiedendo a gran voce lo sciopero generale) che comunque hanno concluso senza problemi e tra gli applausi. Dal palco il segretario confederale Serena Sorrentino ha ribadito: «Noi non ci fermeremo con la fiducia. Questa riforma la cambieremo. Perché non accettiamo che rimangano 46 tipologie contrattuali, perché sull’articolo 18 aumenteranno i contenziosi e gli unici che ci guadagnano saranno i consulenti del lavoro. Non ci accontentiamo dei miglioramenti del Senato ha continuato Sorrentino non basta come dice Fornero sostenere che “Abbiamo limitato un po’ la precarietà”. Per questo noi continueremo nella nostra mobilitazione anche in agosto, quando le Camere saranno chiuse, perché la crisi non va in vacanza», ha concluso Sorrentino.
L’Unità 28.06.12
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“UNA LEGGE CON TROPPI LIMITI”, di Luigi Mariucci
CON OTTO VOTI DI FIDUCIA, QUATTRO AL SENATO E QUATTRO ALLA CAMERA, LA RIFORMA del mercato del lavoro è infine diventata legge. Occorrerà chiamarla legge Monti-Fornero perché il presidente del consiglio e il ministro del lavoro sono i soli che l’hanno veramente voluta. La legge non ha altri padri. Potremmo anche definirla «la legge del disaccordo», perché nessuna delle parti politiche che l’hanno votata si riconosce nel testo ed anzi sia il Pd che il Pdl hanno dichiarato rilevanti motivi di dissenso, naturalmente di segno opposto Si è trattato quindi di un voto motivato dalla insistente richiesta del governo di avere la legge approvata prima della riunione della Ue di oggi. Non è perciò un voto di approvazione della legge, ma piuttosto di conferma della fiducia al governo, ovvero della decisione tutta politica di non aprire una crisi di governo nella drammatica situazione che il Paese, e con lui tutta l’Europa, stanno attraversando. Si può osservare che è la prima volta nella storia della Repubblica che una importante legge sul lavoro viene approvata dal Parlamento in questo singolare modo. Formalmente è una legge bipartisan, approvata dalla «strana maggioranza» che sorregge il governo Monti. Nella sostanza c’è poco o nulla di bipartisan: com’è giusto e naturale i due partiti, del centrodestra e del centrosinistra, sul lavoro mantengono posizioni alternative. Critico, se non drastico, è poi il giudizio delle parti sociali. Tutti i maggiori sindacati dissentono, anche perché ancora feriti dalla draconiana riforma delle pensioni fatta con il «salva-Italia», che si è lasciata dietro la mina vagante dei cosiddetti esodati. La Confindustria poi è stata tranciante. La presidente uscente, Emma Marcegaglia, in una intervista al Financial Times ha detto «is a very bad text». Il nuovo presidente, Squinzi, prima è stato diplomatico, limitandosi all’aggettivo «deludente», poi più ruspante: «è una boiata», ha dichiarato, salvo aggiungere «però bisogna approvarla». Per tutta risposta il ministro Fornero ha replicato: «col tempo la legge verrà rivalutata». È proprio cosi? Vero è che molte cose si rivalutano col tempo, ma non sempre. Ad esempio non si sono rivalutati, ma semmai svalutati, quell’insieme di interventi legislativi emanati dal governo Berlusconi-bis nel 2003 a cui impropriamente è stato attribuito il nome di «legge Biagi»: a distanza di anni risulta acclarato che quelle leggi, pure mosse dalla (dichiarata) intenzione di attivare il mercato del lavoro hanno finito con l’incentivare le forme più odiose di precarietà, come qualche critico fin dall’inizio aveva osservato. In conclusione della vicenda si può proporre il seguente bilancio. Il governo già in partenza ha fatto due scelte di metodo sbagliate. In primo luogo ha caricato di enfasi il tema dei licenziamenti, a partire dalla affermazione «l’art.18 non è un tabù», nella convinzione, tutta interna ad un diffuso ceto di economisti liberisti, che questo fosse lo «scalpo» da portare in Europa e da esibire ai mercati finanziari. In secondo luogo ha deciso di non perseguire un accordo di fondo con le parti sociali, adottando un decisionismo che, alla resa dei conti, è risultato quanto meno zoppo. Ci sono voluti infatti ben sei mesi per approvare la legge e alla fine essa entra in vigore nel quadro di un vasto dissenso sociale e politico, e solo in virtù della situazione eccezionale di crisi in cui si trova il paese. Senza questa situazione di emergenza la legge in parola non avrebbe mai visto la luce. Nel merito, sulle parti più importanti ma rimaste in ombra dato che i riflettori si sono accesi solo sulla questione dei licenziamenti, quelle relative alla disciplina delle assunzioni e degli ammortizzatori sociali, si può osservare che in entrambi i casi si mescolano impostazioni di principio corrette e traduzioni operative non condivisibili. Così sul piano della disciplina delle assunzioni. Qui è giusto il messaggio di fondo, cioè l’idea del ritorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato come figura «dominante». È bene chiarire che contratto di lavoro a tempo indeterminato non significa «posto fisso». Significa che il contratto di lavoro torna a essere, in via generale, strumento di sicurezza, di integrazione sociale, di conquista dei diritti pieni di cittadinanza. Positiva è anche la decisione di puntare decisamente alla rivalutazione del contratto di apprendistato, come via principale del raccordo tra giovani e lavoro, nelle diverse tipologie. Criticabile è invece la decisione di liberalizzare il contratto a termine, eliminando la causale per le prime assunzioni fino a 12 mesi, pure disincentivandolo con aggravio dei costi contributivi. Corretta è la nuova e più stringente regolazione delle collaborazioni, con particolare riferimento alla introduzione del vincolo del «compenso minimo», che allude con evidenza alla introduzione, ormai necessaria, di un salario minimo legale. Criticabile, invece, è il permessivismo alla fine adottato verso le false partite Iva, a partire dal risibile requisito dei 18.000 euro anni, mentre le vere partite Iva vengono scoraggiate con un aggravio dei contributi. Sul tema degli ammortizzatori sociali va apprezzato il fatto che, dopo venti anni di annunci in ordine alla riforma organica dei medesimi, mai adempiuti, si introduca un impianto regolativo che tenta di mettere ordine nella attuale giungla degli ammortizzatori ordinari e in deroga. Su questo punto un discorso di verità prima o poi dovrà essere fatto, sul perché in Italia esistano rilevanti meccanismi di sostegno al reddito per chi è già entrato nel mercato del lavoro e praticamente nessun reale sostegno per chi nel mercato del lavoro deve ancora entrare (soprattutto giovani e donne). Il limite qui è costituito dal fatto che la nuova Aspi, per quanto estenda il suo campo di applicazione rispetto alla vecchia indennità di disoccupazione, è tutt’altro che universale. Mentre le nuove regole introdotte in materia di Cassa integrazione e superamento della indennità di mobilità andranno sottoposte alla rigorosa prova dei fatti. Il nuovo sistema infatti entrerà a regime nel 2016: bisognerà vedere, a quel punto, se saremo usciti dalla attuale fase recessiva oppure no. Sono due scenari radicalmente diversi. Infine sulla controversia questione dei licenziamenti si può dire che è stato evitato il peggio, anche grazie alla iniziativa svolta da questo giornale e alla posizione assunta dal Pd. Si è respinto il tentativo di introdurre una generalizzata monetizzazione dei licenziamenti azzerando lo Statuto dei lavoratori e regredendo alla legge del 1966. Il principio della reintegrazione è stato mantenuto intanto per i licenziamenti discriminatori, ma anche, sia pure in forma residuale, per i licenziamenti disciplinari e economici. Soprattutto si è garantita la funzione cruciale dell’intervento giudiziario, il cui svuotamento era l’obiettivo vero dei liberisti a senso unico. Questo significa infatti la monetizzazione predeterminata del licenziamento illegittimo: è inutile andare dal giudice se alla fine c’è da ottenere solo un risarcimento. Tanto vale conciliare, con la schiena piegata. Invece la schiena dei lavoratori potrà rimanere dritta, quando hanno ragione, perché resta un margine ampio di valutazione del giudice. Proprio alla giurisdizione viene ora assegnato un compito rilevante. Dimostrare efficienza, anche in termini di riduzione dei tempi processuali applicando correttamente le nuove norme procedurali, e saggezza interpretativa. La partita dunque resta aperta. In conclusione si può osservare che la legge è oggetto di dure stroncature, tuttavia di segno opposto. Per alcuni è una legge liberticida e reazionaria che fa tabula rasa di un intero patrimonio storico di garanzia dei diritti dei lavoratori (basti leggere Alleva su Il Manifesto di ieri). Per altri si tratta invece di un intervento che riduce gli spazi della libertà d’impresa (si guardino le dichiarazioni degli ex ministri Sacconi e Brunetta). Non è che le critiche di segno antitetico si elidano tra loro, secondo la logic
a degli opposti estremismi, per cui se ne deve dedurre che la legge, collocandosi in medio, è virtuosa. C’è invece ampio spazio per una critica razionale. Per modifiche e integrazioni che si potranno introdurre anche a breve termine, nel decreto sviluppo. In ogni caso si potrà e si dovrà fare di più e di meglio, quando al governo ci sarà, appunto, una sinistra di governo.
l’Unità 28.06.12