Il Partito democratico e con lui l’insieme della sinistra italiana, hanno di fronte un compito storico: quello di formare nell’opinione pubblica italiana un nuovo senso comune con al centro un progetto di rinascita dell’Italia.
Il ventennio berlusconiano, e non solo quello, ha riempito di tossine il costume civile e l’intelligenza critica del Paese: il lavoro da fare è perciò difficile e impegnativo. Per svolgerlo, bisogna essere capaci di mettere in campo una cultura dell’emancipazione, dell’equità e della cittadinanza quale mai si è riusciti finora a produrre nella storia nazionale. I suoi elementi non si trovano già pronti nelle nostre tradizioni, più o meno aggiornate ai problemi del presente. Vanno costruiti con uno sforzo di elaborazione originale, in cui la scelta e il gusto dell’innovazione mettano in grado di anticipare il futuro, e di trovare soluzioni avanzate e convincenti. C’è bisogno di creazione, piuttosto che di sintesi. Non si tratta di collegare in maniera più o meno coerente pezzi delle eredità ricevute (tradizione cattolico-democratica, tradizione socialista, e così via), ma di essere in grado di oltrepassarle di slancio, e di proiettare in avanti il nostro pensiero.
In questo senso, il documento messo a punto dal Comitato diritti del Pd può essere considerato un passo avanti di una qualche importanza. Certo, avrebbe potuto essere, in alcune sue parti e formulazioni, più incisivo, meno scolastico, più coraggioso, e con un maggior numero di proposte. Lo stile avrebbe potuto essere più accattivante e meno da documento politico. Ma la strada mi sembra nel suo insieme quella giusta, e gli abbozzi di analisi che vi sono contenuti mi pare spesso colpiscano il segno. Mi riferisco in particolare a tre temi, che considero di grande rilievo: il rapporto fra tecnica e vita, quello fra eguaglianza e differenza, e la ridefinizione della famiglia.
Oggi la nuova potenza della tecnica le sta consentendo di intervenire sugli stessi fondamenti biologici della nostra esistenza, di modificare i confini tra la vita e la morte, di creare una sempre più ampia zona grigia dove naturale e artificiale si confondono, in un intreccio che è il motore della nuova civiltà. È una nuova condizione dell’umano, la “morte del naturale”, che si riflette non solo sul piano operativo, ma su quello etico e dei comportamenti, e ha determinato quell’enorme aumento di bisogni, di desideri, di soggettività e di consumi che sta sommergendo il nostro tempo. Una moltiplicazione e un’espansione dei piani di vita individuali la cui crescita disordinata sta logorando le risorse del pianeta: non solo quelle naturali, ma anche quelle che potremmo chiamare “storiche”, accumulate attraverso millenni di lavoro umano – pensiamo, ad esempio, alle nostre città. Una domanda capitale si impone di fronte a questo stato di cose: quanto della nuova potenza tecnologica dovrà incontrare i nostri progetti di vita passando attraverso la forma della merce e del mercato, e quanta invece dovrà essere accessibile al di fuori di questa mediazione. Noi sappiamo bene che la soluzione non può essere quella di ridare semplicemente allo Stato ciò che togliamo al mercato. Si tratta di mettere alla prova nuove forme di razionalità sociale – lavoro, territorio, conoscenza, costruzione di sé – in grado di esprimere attraverso altre strade una nuova relazione fra individuo e collettività, fra bene comune e identità soggettiva. Un compito enorme, ma ineludibile.
Le tradizioni democratiche dell’Occidente hanno fatto sinora di un’idea forte di eguaglianza un elemento costitutivo della loro presenza. Ed è evidente che questo pensiero debba restare una stella polare della nostra cultura. Ma quale eguaglianza? Anche su questo dovremo riflettere molto, per preparare il futuro. Il tramonto della grande industria meccanica nei Paesi avanzati del pianeta e la fine del lavoro operaio come principale produttore di ricchezza sociale hanno messo in crisi il modello di eguaglianza proprio della cultura socialista, che aveva dentro di sé l’odore del carbone e del ferro. Il lavoro postindustriale non è né socializzante né intrinsecamente egualitario, come quello della grande fabbrica. L’idea di eguaglianza ha così perduto il suo centro propulsore. Dobbiamo trovarne di nuovi, partendo da un’idea non seriale e non ripetitiva di eguaglianza, fondata più sulla cittadinanza che sulla produzione, e in grado di integrare dentro di sé un’idea altrettanto forte della differenza, delle diversità, dell’irriducibile specificità di ogni piano di vita individuale. Mai così eguali e mai così diversi: questa deve diventare la nostra bandiera. Blocchi espansivi di eguaglianza, in un oceano di differenze.
Infine, la famiglia. La vita esiste solo entro le forme: forme della tecnica, e forme della socialità. La famiglia è appunto una forma sociale primaria che ha organizzato a lungo la socialità più elementare delle nostre vite. La sua origine non ha nulla di misterioso, e non riflette alcuna pretesa naturalità: essa si è imposta perché assicurava un formidabile vantaggio evolutivo ai gruppi che l’adottavano, rispetto alle comunità di branco, legato a un miglior controllo della funzione riproduttiva. Essa è storia, e solo storia, e dunque continua trasformazione. L’ultimo cambiamento – risultato di una grande novità economica e culturale legata alla rivoluzione industriale di due secoli fa – ha messo per la prima volta al suo centro in Occidente l’amore dei coniugi: pulsioni, fantasie, affettività che il mondo moderno aveva fatto emergere e cui aveva dato voce (da Hegel a Thomas Mann). Ma se la famiglia moderna è fondata solo sull’amore, la radicalità dell’enunciato si carica di importanti conseguenze. La prima è che, oggi, la trama dell’amore non può essere più ridotta entro la cornice dell’eterosessualità, quando ormai l’urgenza della funzione riproduttiva si è spenta per tutta la specie. Quel che oggi rimane al centro della famiglia è nient’altro che una dialettica dei sentimenti e delle diversità che possiamo sganciare dal “maschile” e dal “femminile” così come si sono storicamente dati. Anche le differenze di genere sono storia, e solo storia. Un autentico progetto di emancipazione passa anche per questa scoperta.
l’Unità 27.06.12