Vista dall’Italia, l’opinione pubblica tedesca sembra credere che la crisi economico-finanziaria stia attaccando gli Stati sovrani dell’area mediterranea, risparmiando il cuore virtuoso dell’Europa più forte. Io credo invece che la prospettiva sia sbagliata e soprattutto che la verità sia più allarmante. L’attacco è all’Europa stessa attraverso la sua periferia più debole: è alla moneta come strumento e simbolo dell’unità del continente, e dunque è a tutto il processo politico, storico e culturale di costruzione europea che ha evitato conflitti per quasi settant’anni.
Vista dalla Germania, immagino che l’Italia sembri un problema troppo complicato per provare a risolverlo, e troppo serio per essere ignorato.
Conviene dunque lasciare che gli italiani vengano a capo dei loro guai, fissando soltanto i binari su cui deve correre il Paese se vuole salvarsi, e la stazione d’arrivo. Nient’altro. Sorprendentemente, come sa il cancelliere Merkel, gli italiani ci stanno provando. Mario Monti ha recuperato credibilità e fiducia al Paese, lo ha schiodato dal livello del pregiudizio dov’era precipitato, non ha chiesto sconti e ha imposto misure molto dure. I cittadini si sono adeguati, accettando i parametri europei, e caricandosi i sacrifici conseguenti. Anche se i parametri sono in qualche misura ciechi, guardano al risultato di saldo e non al percorso in base al quale quel risultato si raggiunge, non conteggiano le ingiustizie, le iniquità di certe misure, il peso che con la tassazione si scarica sui ceti più deboli, soprattutto in un Paese a forte evasione fiscale.
La Germania tempo fa aveva detto che l’Italia doveva fare i compiti a casa. Bene, li abbiamo fatti e li stiamo facendo. Come già aveva dimostrato al varo dell’euro, quando l’Europa chiama l’Italia risponde: in ritardo, con le sue contraddizioni, con i suoi elementi storici di debolezza (soprattutto il terzo debito pubblico del mondo) ma risponde, pronta a fare gli sforzi necessari per restare dentro quell’Unione Europea di cui è partner fondatore. Ma tagliare — e tassare — è più facile che crescere e sviluppare. Siamo arrivati al punto in cui la politica del rigore e dell’austerità va proseguita, ma da sola rischia di avvitarsi un una spirale di recessione, col pericolo di trasformare l’Europa nella palla al piede dell’economia mondiale, come dimostra l’allarme del presidente Obama.
La risposta a questi attacchi può venire soltanto dall’Europa, nessuno Stato nazionale può riuscire da solo a reggere un attacco alla moneta unica e alla costruzione Europea. La risposta è difensiva, naturalmente, introducendo un principio di salvaguardia centrale e solidale che oggi manca e che sostenga gli Stati e non soltanto le banche sotto attacco; ma è anche strategica, perché serve un piano di sviluppo e di crescita che può essere soltanto europeo, che assomigli al New Deal e che abbia l’ambizione di costruire le basi di una sicurezza economica del continente come condizione per la sua sicurezza politica, e dunque per una crescita del processo di unione.
C’è dunque bisogno di politica, di ambizione e di visione. Non di sconti ai Paesi più deboli e più direttamente nei guai. C’è bisogno che l’Europa prenda coscienza di sé, o che qualcuno le dia questa coscienza. Il limite dell’attuale classe dirigente europea — tutta — rischia di essere proprio la mancanza di visione e d’ambizione, dunque di politica. Come se fosse difficile vedere che si esce dalla crisi solo con più coraggio, con la consapevolezza di dover ripensare alla governance complessiva dell’Europa, perché la crisi ci ha fatto toccare con mano la necessità di un reset democratico del mondo in cui viviamo.
Noi oggi difendiamo con forza e convinzione una moneta europea che è il massimo simbolo di forza del nostro continente, la sua suprema espressione politica, e tuttavia è nello stesso tempo la prova della sua debolezza, un “caffè freddo”, come dicevano i tedeschi nel 2001. La moneta è nuda ed esposta al vento della crisi anche perché non ha uno Stato che possa batterla, un esercito che sappia difenderla, un governo che riesca a guidarla, una politica estera che possa rappresentarla e soprattutto non ha un sovrano che sia capace di “spenderla” politicamente nel mondo.
Il vero deficit dell’Europa è dunque politico. Manca una politica capace di fissare un obiettivo oltre i sacrifici e il rigore, rendendoli accettabili nella coscienza dei cittadini e non imposti dai governi. È il momento — drammatico, ma ricco di opportunità — dei costruttori d’Europa. Tocca alla classe dirigente europea riprendere la visione dell’euro e portarla a compimento, usando finalmente la moneta e il suo mercato non come strumenti neutri ma come opportunità politiche, suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche.
Certo, direbbe il cancelliere Merkel, tutto questo può avvenire solo coi conti in ordine e con le regole europee rispettate e non più disattese. E non c’è dubbio che sia così. Ma bisogna indicare un punto d’arrivo, una posta in gioco per l’austerity, un traguardo che vada oltre la sopravvivenza e ridìa un ruolo politico e ambizioso anche ai sacrifici che i cittadini europei stanno facendo. La politica è proprio questo, la capacità di dare un significato più generale alle azioni che si compiono, di trasformare le difficoltà in opportunità.
Anche perché la crisi, intanto, non è un passaggio neutrale. Agisce, e modifica strutture, comunità, istituzioni, persino diritti. Come risponderemo, ad esempio, alle spinte nazional-sociali che emergono a destra e a sinistra nel fondo delle nostre società? Come argineremo il nuovo populismo, che propone ricette primitive, ritorni all’indietro, semplificazioni elementari davanti alla complessità disarmante dei problemi? Come difenderemo l’idea di Europa davanti ai cittadini se la lasciamo assomigliare sempre più ad una grande banca, un’istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz’anima? Come armonizzeremo la leadership di fatto dei Paesi più forti economicamente con la leadership di diritto delle istituzioni comunitarie?
L’eccezionalità della crisi finanziaria sembra aver messo tra parentesi il diritto. E qui arriviamo al nodo della democrazia, perché la crisi erode addirittura il lavoro, cioè la base della convivenza sociale e delle obbligazioni volontarie dell’individuo davanti a se stesso, alla propria famiglia, alla propria dignità. Il pericolo è dunque che i cittadini (soprattutto i più deboli, e soprattutto davanti ad uno smantellamento dei sistemi di welfare) si domandino se la democrazia è ancora il sistema più efficiente, se lavora anche per loro oppure solo per i garantiti, se alla resa dei conti non è semplicemente la misura della disuguaglianza: la parola che rischia di diventare la cifra della nostra epoca.
Ecco perché c’è bisogno di leadership, di visione, d’ambizione e di politica. Pensare in grande. Indicare traguardi simbolici per cui vale la pena di attraversare il deserto della crisi. Varare misure concrete per ripensare il rapporto tra le istituzioni e gli Stati sovrani, per dare alla Bce — che intanto da strumento è già diventata un soggetto attivo e autonomo della democrazia europea — un ruolo simile alla Fed. Reimpiantare la sovranità nei cittadini, perché non possiamo continuare a prendere decisioni cruciali per l’Europa prescindendo dal consenso, dalla fiducia e dall’opinione degli europei.
Il problema è che c’è bisogno della Germania per tutto questo, come Berlino ha bisogno dell’Europa. Ma la Germania ha quest’ambizione? Si accontenterà di esercitare un ruolo di potenza con una supremazia economica (come se la riunificazione avesse esaurito ogni bisogno di cambiamento, sospetta Ulrich Beck) o è pronta ad accettare la sfida di una leadership culturale e politica? Questo è il punto. Dobbiamo ripensare l’Europa per governare la crisi e non uscirne dominati e trasformati. Più Europa e più democrazia: non c’è altra strada.
La Repubblica 28.07.12
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“COSA CHIEDIAMO ALL’ITALIA”, di THOMAS SCHMID
IN MOLTE parti d’Europa oggi Angela Merkel non è amata. Accade che vengano pubblicate su alcuni giornali caricature che raffigurano la Cancelliera in uniforme delle SS. Ma anche laddove, come in Italia, ciò non accade, lo sguardo alla Germania è carico di accuse. Se Mario Monti non fosse una persona così gentile, le parole critiche che il presidente del Consiglio indirizza alla Germania suonerebbero molto più drastiche.
Certo è che in molte parti d’Europa la Germania è percepita come un Paese senza scrupoli né freni, che si preoccupa soltanto dei suoi interessi e dei suoi cittadini, e che mette in campo senza scrupoli la sua forza economica. Davvero è così? Ci sono deficit tedeschi, e non sono certo piccoli.
Dipendono prima di tutto dal fatto che Angela Merkel fa troppo poco per spiegare ai cittadini d’Europa (e anche ai tedeschi) che gioco stiamo giocando e che cosa è in gioco oggi.
In molte parti d’Europa oggi Angela Merkel non è amata. Accade che vengano pubblicate su alcuni giornali caricature che raffigurano la Cancelliera in uniforme delle SS. Ma anche laddove, come in Italia, ciò non accade, lo sguardo alla Germania è carico di accuse. Se Mario Monti non fosse una persona così gentile, le parole critiche che egli indirizza alla Germania suonerebbe-ro molto più dras tiche. Certo è che in molte parti d’Europa la Germania è percepita come un Paese senza scrupoli né freni, che si preoccupa soltanto dei suoi interessi e dei suoi cittadini, e che mette in campo senza scrupoli la sua forza economica. Davvero è così?
Ci sono deficit tedeschi, e non sono certo piccoli. Dipendono prima di tutto dal fatto che Angela Merkel fa troppo poco per spiegare ai cittadini d’Europa (e anche ai cittadini tedeschi) che gioco stiamo giocando e che cosa è in gioco oggi. La forte Angela Merkel, sul piano del discorso e dell’eloquenza, è debole, e a quanto pare pensa di poter puntare tutto sul potere dei rapporti di forza reali e delle cifre. Ma ciò non cambia nulla su un punto: è una grande fortuna per l’Europa che la Cancelliera, con caparbietà quasi mostruosa, resti ancorata al primato della politica di risanamento dei bilanci sovrani. È bene che ella non si lasci convincere a seguire un nuovo keynesismo, che si opponga a programmi di sostegno alla congiuntura e ad ogni altra politica che punti a creare la crescita economica attraverso un nuovo indebitamento. Può sembrare una fisima o una mania, ma in realtà la Cancelliera ci richiama tutti, sebbene solo in modo negativo, a ricordare un problema fondamentale, da cui dipende il futuro dell’Europa.
L’Unione europea nacque e acquisì le sue forme e strutture in un’epoca in cui molti credevano che fosse iniziata un’era di prosperità infinita. C’è stata una coincidenza: con la Ue l’Europa ha detto addio all’epoca dei nazionalismi, delle guerre fratricide, delle devastazioni e delle macerie. In quello stesso periodo, e anche a causa di quella scelta di voltare pagina, si avviò un processo di crescita economica che prima non sarebbe stato immaginabile. Quasi tutti gli Stati d’Europa approdarono in tempo relativamente breve all’equilibrata società del benessere. Ciò dette alla coscienza collettiva dei popoli d’Europa l’impressione che fosse stato creato qualcosa come il Perpetuum Mobile. Ci avviammo e ci azzardammo – gli uni prima, gli altri dopo – sulla via dell’era dell’abbondanza garantita. Ci sfuggì il fatto che questo benessere era bello, ma non solido nelle fondamenta. Come se esistesse solo l’Oggi e non il Domani, puntammo ovunque a un benessere creato con i debiti. Adesso, guardando indietro, capiamo che dominò ovunque la credenza ingenua e infantile che comunque sarebbe andato tutto bene. Abbiamo violato un dettame costitutivo dell’ecologia politica: abbiamo vissuto bene sulle spalle delle generazioni successive, abbiamo permesso che il Presente consumasse il Futuro, si nutrisse del Futuro.
La crisi finanziaria internazionale ci ha chiarito anche questa realtà. E la rigorosa politica di consolidamento di Angela Merkel è segnata e ispirata prima di tutto dalla convinzione che l’Europa debba dire addio a questa insana, sciagurata politica. È un processo doloroso, per affrontare il quale la Germania in realtà è meglio attrezzata rispetto ad alcuni altri Stati europei, inclusa l’Italia. Per questa ragione, tra l’altro, è vergognoso che la Germania stessa violi il dettame del risparmio e che, malgrado il tetto al debito sovrano iscritto nella Costituzione, l’indebitamento pubblico abbia continuato ad aumentare. E che in un Bundesland, il Nordreno- Westfalia, il candidato che aveva fatto del problema del debito il tema decisivo della sua campagna abbia perso le elezioni. Ha vinto invece la sua rivale, che con allegra indifferenza ha schivato quel tema.
Risparmiare e consolidare non è tutto, ma senza risparmio e consolidamento ben presto tutto in Europa potrebbe essere annientato. Ma poiché risparmiare non è tutto, gli sforzi di tutti devono andare ben oltre: ci vuole più Europa, ecco la realtà. Ma questo processo non dovrebbe andare nella direzione di uno Stato federale, o degli Stati Uniti d’Europa. A lungo, non avremo un Demos europeo. L’Italia come la Germania, nel corso del XIX secolo, hanno attraversato un doloroso processo di costruzione dello Stato nazionale. Un processo che ci mostrò quanto sia difficile unire in un legame politico genti che in parte non si sentono appartenenti alla stessa comunità. Tanto più vero è ciò per l’Europa, che è costituita da nazioni che parlano lingue diverse, hanno culture totalmente differenti tra loro e sono condizionate ognuna in modo diverso anche dalle condizioni climatiche in cui vivono. Non è un caso che oggi non esista nemmeno un embrione o accenno di opinione pubblica europea. Ma una comunità senza opinione pubblica comune non può essere una buona comunità.
A ciò si aggiunge l’errore di tanti convinti politici europei: ai dubbi e alle difficoltà degli elettori non reagiscono con riflessioni, bensì chiedendo di andare sempre più avanti sullo stesso corso politico. Una simile reazione è sempre stata sbagliata, ma diventa nociva, dannosa in un’epoca in cui l’Europa è sull’orlo di una catastrofe e anche i principali leader po-litici, cui vengono richieste fedeltà alle loro scelte, e convinzioni chiare, ammettono di trovarsi a volte come persone che barcollano nella nebbia. L’appello a compiere più integrazione politica è un appello volto a narcotizzare le loro stesse paure.
Che fare, dunque? Paesi – come anche l’Italia – che si trovano sotto sorveglianza speciale, non dovrebbero agire e pensare come sentendosi povere vittime di un crudele Nord protestante. Devono avere la volontà di aiutarsi da soli. Ma è parimenti vero che al tempo stesso il Nord – la Germania prima di tutti – deve assumersi la sua responsabilità. Fin dall’inizio, la Ue è stata anche un progetto idealista, di cui uno dei padri fu il grande italiano Altiero Spinelli. Nella Ue di oggi l’empatia deve giocare un ruolo determinante. E la Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli. Sì, la Germania deve essere egemone, ma in modo amichevole. Il potenziale per farlo, lo ha. Ne ha anche la volontà?
La Repubblica 28.06.12