attualità, politica italiana

"Il Vietnam dell'Europa", di Barbara Spinelli

Alla vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di
un vertice definito cruciale.
Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia.
Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la Tobin tax
spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti.
Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo.
Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino
cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola
più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva- Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile ».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiede l’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: « Finché vivrò non accetterò gli eurobond »). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game).
Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.

La Repubblica 27.06.12