La Sentenza della Corte Costituzionale n. 147 del 4 luglio 2012 (1) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 4, del D.L. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011. Tale norma prevedeva che “per garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012 la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di I grado; gli istituti compresivi per acquisire l’autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.”
Con sette diversi ricorsi le Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Puglia, Basilicata e la Regione siciliana avevano proposto questioni di legittimità costituzionale relative al su citato comma 4 e a diverse altre disposizioni del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
Le Regioni avevano argomentato i loro ricorsi sostenendo che:
a) nella materia dell’istruzione convivono diverse competenze, suddivise tra Stato e Regioni: al primo spetta la competenza esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost., in tema di «norme generali sull’istruzione», mentre è oggetto di competenza concorrente, secondo l’art. 117, terzo comma, Cost., la materia dell’istruzione in generale, nella quale allo Stato rimane soltanto la determinazione dei principi fondamentali.
b) nel caso specifico, alla luce dei concetti espressi nella sentenza n. 200 del 2009 (2) della Corte, non sembra che le disposizioni censurate possano rappresentare norme generali sull’istruzione, in quanto esse non fissano affatto gli standard minimi, non toccano i cicli dell’istruzione, non regolano le finalità ultime del sistema dell’istruzione, né hanno ad oggetto la regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli o la valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti;
c) neppure sembra che le norme censurate possano ritenersi espressione di principi fondamentali in materia di istruzione, poiché le stesse si risolvono nell’enunciazione di una serie di regole di dettaglio che precludono l’esercizio di scelte che sono la ragione stessa dell’autonomia che la Costituzione riserva alle Regioni;
d) stabilire che non possano esservi scuole dell’infanzia, scuole primarie e secondarie di primo grado che non siano accorpate in istituti comprensivi (art. 19, comma 4) significa escludere in via assoluta la possibilità di dare risalto a specifiche particolarità locali, imponendo alle Regioni una mera attività di esecuzione;
e) una tipica competenza regionale – riconosciuta anche dalla giurisprudenza costituzionale intervenuta subito dopo la riforma del 2001 (sentenze n. 13 del 2004, n. 34 e n. 279 del 2005) e poi ribadita nella pronuncia n. 200 del 2009 – è proprio quella riguardante la programmazione della rete scolastica ed il dimensionamento degli istituti scolastici. Tale competenza era stata già conferita alle Regioni dall’art. 138 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59); né è pensabile che una funzione attribuita alle Regioni nel quadro costituzionale antecedente la riforma di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia stata poi alle stesse sottratta dopo tale riforma, che è orientata nel senso di una maggiore autonomia;
f) la totale mancanza di ogni coinvolgimento delle Regioni nel processo di ristrutturazione degli istituti scolastici determinerebbe, inoltre, la violazione del principio di leale collaborazione poiché, anche invocando il principio di sussidiarietà in senso ascendente, si sarebbe dovuta comunque garantire un’adeguata concertazione con le Regioni. Il che è ancor più grave se si pensa che la modifica legislativa è intervenuta nel mese di luglio, ossia a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico, in tal modo alterando decisioni ed assetti organizzativi già assunti dalle Regioni;
g) il carattere di norme di dettaglio delle disposizioni sottoposte a scrutinio, inoltre, lederebbe anche l’art. 117, sesto comma, Cost., in base al quale la potestà regolamentare spetta alle Regioni in tutte le materie che non rientrano in quelle di competenza esclusiva dello Stato;
h) le disposizioni contenute nell’art. 19, comma 4 del D.L. n. 98 del 2011 non possono trarre il loro fondamento giustificativo in altri titoli di competenza previsti dall’art. 117 della Costituzione, che non può parlarsi, in questo caso, di disposizioni concernenti la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., perché la normativa impugnata non si preoccupa di imporre il raggiungimento di livelli qualitativamente minimi nel servizio istruzione – livelli che le Regioni possono certamente migliorare – ma detta, invece, una normativa specifica relativa alle dimensioni ed alla dirigenza degli istituti scolastici.
i) le disposizioni sottoposte allo scrutinio della Corte, pur avendo un chiaro obiettivo di riduzione della spesa, non possono considerarsi principi fondamentali nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha ribadito in più occasioni (si richiamano, tra le altre, le sentenze n. 182 del 2011, n. 120 e n. 289 del 2008 e n. 169 del 2007) che lo Stato può imporre legittimamente alle Regioni vincoli alle politiche di bilancio; tuttavia, affinché non venga invasa la sfera di competenza regionale, occorre che tali limiti riguardino l’entità del disavanzo oppure, ma solo in via transitoria, la crescita della spesa corrente, fermo restando che lo Stato non può mai fissare limiti precisi per singole voci di spesa, ma soltanto un limite complessivo che lasci alle Regioni la libertà di allocare le risorse nei diversi ambiti. Nel caso specifico, invece, la normativa statale lede ulteriormente la competenza concorrente delle Regioni nella materia citata, perché non lascia alle stesse alcuna possibilità di scelta.
L’Avvocatura generale dello Stato, attivata in tal senso dal governo Berlusconi, (ma gli autori di tali scempiaggini occupano ancora posti di rilievo al MIUR) su tutti i sopraindicati rilievi delle Regioni aveva sostenuto tesi diametralmente opposte.
In particolare aveva sostenuto che:
a) le norme impugnate impongono la formazione di istituti comprensivi per l a scuola dell’infanzia, per quella primaria e per quella secondaria di primo grado.
b) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2009, ha chiarito che, anche dopo la riforma del 2001, lo Stato mantiene una competenza esclusiva in materia di norme generali sull’istruzione; secondo tale pronuncia, deve ritenersi che «il sistema generale dell’istruzione, per sua stessa natura, rivesta carattere nazionale, non essendo ipotizzabile che esso si fondi su una autonoma iniziativa legislativa delle Regioni». Alla luce di questo criterio, va riconosciuto che le norme censurate, andando ad incidere sulla determinazione degli standard strutturali minimi che le istituzioni scolastiche devono possedere, «si possono annoverare tra quelle disposizioni che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme su tutto il territorio nazionale»; in quanto tali, esse rientrano nella competenza esclusiva dello Stato. Come già in precedenza avveniva con l’art. 2 del D.P.R. 18 giugno 1998, n. 233 (Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei singoli istituti, a norma dell’articolo 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), anche l’attuale art. 19 risponde alla necessità di fissare criteri omogenei su tutto il territorio al fine di far acquisire alle istituzioni scolastiche l’autonomia e di consentire l’attribuzione della personalità giuridica;
b) anche richiamando la competenza concorrente in tema di istruzione prevista dall’art. 117, terzo comma, Cost. la natura di norma di principio emerge dal rilievo per cui le norme dell’impugnato art. 19, comma 4, contribuiscono a configurare la struttura portante del sistema nazionale di istruzione, al fine anche di consentire un’offerta formativa omogenea
c) esiste, nella specie, anche un altro titolo di competenza statale, ossia quello del coordinamento della finanza pubblica. Le disposizioni in questione, infatti, in attuazione degli obiettivi finanziari già delineati dall’art. 64 del d.l. n. 112 del 2008, determinano evidenti risparmi di spesa «derivanti dalla riduzione del numero di istituti scolastici di 1.130 unità e dei posti di dirigente scolastico e di direttore dei servizi generali e amministrativi». In base alla giurisprudenza costituzionale (si citano le pronunce n. 417 del 2005, n. 181 del 2006 e n. 237 del 2009), una norma statale di principio, adottata in materia di competenza concorrente, può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale, il che comporterebbe la piena legittimità costituzionale delle disposizioni oggi in esame:
d) la previsione di una soglia minima di alunni degli istituti scolastici costituirebbe uno degli standard per conseguire l’autonomia e che la relativa materia è di spettanza esclusiva dello Stato.
La Corte Costituzionale respinge tutte le sopraindicate valutazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, accoglie tutte le motivazioni dei ricorsi in materia e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.19 comma 4.
Nella elencazione dei motivi che sostengono tale decisione la Corte inserisce un richiamo che, a mio parere, riveste un rilievo fondamentale perché in qualche modo segnala la illegittimità di tutto l’impianto normativo con cui il ministro Gelmini ha dato attuazione ai provvedimenti riguardanti la razionalizzazione della rete scolastica.
Infatti la Corte Costituzionale segnala che il D.P.R. 20 marzo 2009, n. 81(3) (Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 , convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), mirava a modificare il quadro normativo, disponendo, all’art. 1, che alla definizione «dei criteri e dei parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio scolastico, si provvede con un decreto, avente natura regolamentare, del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata» tra lo Stato e le Regioni. Il medesimo art. 1, peraltro, stabilisce che, fino all’emanazione del menzionato decreto ministeriale, continui ad applicarsi la disciplina vigente, in particolare il D.P.R. n. 233 del 1998, ivi compreso il relativo art. 3 da considerarsi abrogato soltanto all’atto dell’entrata in vigore del predetto decreto ministeriale (art. 24, comma 1, lettera, del D.P.R. n. 81 del 2009). La Corte al riguardo aggiunge che non risulta, comunque, che tale decreto sia mai “intervenuto” (un altro fantasma dopo quel famigerato Piano Programmatico scomparso per più di un anno e rimesso in vita da un apposito decreto legge), tanto che alcune delle Regioni ricorrenti hanno fatto presente, nei loro ricorsi, che l’art. 19, comma 4, in esame è stato emanato quando esse avevano già provveduto all’approvazione dei piani regionali di dimensionamento in vista dell’inizio dell’anno scolastico 2011/2012, piani evidentemente formulati secondo lo schema di cui al d.P.R. n. 233 del 1998.
Se si leggono tali considerazioni, su una materia (il DPR n.81/2009) che non era oggetto dei ricorsi e quindi non consentiva alla Corte di pronunciare valutazioni di merito sulla sua legittimità, tenendo conto del contesto dei principi sanciti nella Sentenza, si deduce chiaramente che tale decreto regolamentare, riguardando una materia di legislazione concorrente, in base al comma 6 dell’art 117 della Costituzione sarebbe stato di competenza esclusiva delle Regioni. E’ questo certamente il motivo per cui fino ad oggi non è stato emanato!
Ma al riguardo si devono svolgere ulteriori considerazioni. In primo luogo, come rilevava in un recente intervento su Rete Scuole Mario Piemontese, si deve segnalare che, in base a quanto stabilito nell’articolo 24 dello stesso DPR n.81/2009, a causa della mancata entrata in vigore di quel Regolamento sono ancora in vigore le seguenti normative:
c) il decreto del Ministro della pubblica istruzione in data 15marzo 1997, n. 176;
d) l’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1998, n. 233;
e) i Titoli II, III e IV del decreto ministeriale 24 luglio 1998, n. 331;
E’ infatti assai dubbio che ad esempio il decreto n.331 riguardante gli organici possa essere stato sostituito, in presenza del dispositivo di cui all’art. 24 del DPR n.81/2009, dai successivi decreti interministeriali che in questi anni hanno regolato la materia degli organici.
Ma il problema più rilevante che emerge dal contesto della Sentenza n.147/2012 riguarda la legittimità costituzionale dell’art.1 e dell’art. 24 dello stesso Decreto n.81.
Infatti questo regolamento ha avuto una modalità di nascita assai singolare che merita di essere ricordata. Al riguardo mi rifaccio ad un articolo che pubblicai su Scuola Oggi il 6 luglio 2009. (http://www.scuolaoggi.org/node/1555)
In quella occasione segnalavo che la pubblicazione, in G.U avvenuta il 3 luglio 2009, del Regolamento sulla razionalizzazione della rete scolastica, o era dovuta a un refuso amministrativo o esprimeva la volontà del governo di forzare ed eludere le decisioni della Corte abrogative, con la Sentenza n, 200 del 24 giugno 2009 pubblicata sulla G.U il 2 luglio 2009, delle norme di cui .alle lettere f-bis) e f-ter) ,del comma 4, dell’art.64 della legge 133/08.
Norme queste, è bene ribadirlo anche oggi, che costituivano, come aveva accertato la Corte, gli unici criteri in base ai quali si era potuto redarre il suddetto Regolamento di delegificazione!
Di fatto il DPR n. 81, controfirmato il 20 marzo 2008 dal Presidente della Repubblica, aveva evidentemente avuto incidenti di percorso, e era giaciuto per molti mesi presso gli uffici preposti alla pubblicazione. Oggi si deve prendere atto che la sua pubblicazione avvenuta qualche giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta della sentenza n.200 della Corte Costituzionale non ha rappresentato un refuso ma una precisa scelta di carattere eversivo del nostro ordinamento di cui qualcuno dovrebbe essere chiamato a risponderne.
Il governo Berlusconi dell’epoca, con l’emanazione del DPR n.81 del 3 luglio 2009, ha voluto dire alla Corte e al Paese che quel decreto che entra in vigore dopo la sentenza 200 pienamente valido perché non si fonda sulle norme abrogate, abrogazione di cui ha tenuto (preventivamente?) conto con le modifiche ad esso apportate in conseguenza del parere espresso dalla Conferenza unificata.
Quel Governo ha commesso in tal modo un falso clamoroso escogitato solo per eludere una sentenza della Corte.
Quello che è ultrachiaro è il fatto macroscopico che il 3 luglio 2009 , il giorno dopo la pubblicazione della sentenza 200 della Corte Costituzionale, esce un DPR con un Regolamento per il quale la Corte Costituzionale ha eliminato, dichiarandoli incostituzionali, i criteri direttivi che lo hanno previsto e informato.
La Corte aveva in quell’occasione esaminato minuziosamente i criteri direttivi che presiedono alla delegificazione e aveva dichiarato incostituzionali quelli predetti e come appartenenti all’area delle norme generali tutti gli altri.
Quando la Sentenza n. 147/12 si domanda che fine abbia fatto il Decreto regolamentare di cui al comma 1 dell’art.1 del DPR n.81 che in base alla previsione di cui alle lettere f-bis e f-ter dell’art. 64, abrogate dalla sentenza 200/09, aveva il compito di assegnare al MIUR, la definizione dei parametri e dei criteri per il dimensionamento e per l’individuazione dei punti di erogazione dei servizi, segnala oggettivamente l’incostituzionalità di tale approccio.
Infatti l’art.1, comma 1, del DPR n. 81, rinviando ad successivo decreto del MIUR avente natura regolamentare, sia pur previa un’Intesa in sede di Conferenza Unificata, realizza un percorso che proprio la sentenza n.147 ha giudicato invasivo delle competenze regionali.
La questione dianzi proposta é di fondamentale importanza nel processo, che in que sto momento sembra riprendere slancio, per la definizione di tutti gli adempimenti necessari per dare piena attuazione in materia d’Istruzione al dettato del titolo V della Costituzione.
Per avanzare con certezza su tale terreno, dopo anni di rinvii e di attese, a mio parere occorre eliminare o aggirare il macigno costituito dall’art. 1 comma 1 del DPR n. 81/2009.
Ciò si può realizzare comprendendo che le regole da definire in sede di Conferenza unificata non possono ridursi ad un parere non vincolante su un Decreto ministeriale ma devono costituire autentiche linee guida aventi identico valore normativo per tutte le parti contraenti. A queste line guida dovrà poi dare attuazione, per gli aspetti che le competono, la normativa legislativa e regolamentare dello Stato e delle singole Regioni.
Nell’immediato, in vista dell’inizio del prossimo anno scolastico, dovranno essere concordate le modalità per realizzare gli interventi di urgenza necessari a correggere le situazioni più abnormi create dall’accorpamento selvaggio degli istituti comprensivi.
(1)SENTENZA N.147-2012
(2)SENTENZA N-200-2009
(3)ARTT-1 e 24 DPR81-2009