"La ricostruzione faraonica che deturpa San Giuliano", di Barbara Spinelli
Siamo abituati a parlare degli anni berlusconiani come di un’epoca di torbidi: torbidi nei palazzi di potere, nei rapporti tra esecutivo e magistratura, nei partiti che avrebbero potuto, se lo avessero voluto, fermare la degradazione della politica, il discredito terribile che oggi l’affligge. Siamo meno abituati a considerare le cicatrici che questi anni hanno lasciato sul corpo fisico dell’Italia, sul suo paesaggio, sull’idea che gli italiani si fanno delle proprie città, sul modo in cui le abitano. Sono sfregi profondi (si aggiungono a più antichi sfregi: il sacco di Palermo negli anni ‘50-’70 fu l’acme) e in ampie zone d’Italia sono indelebili: ci hanno cambiato antropologicamente, nessun’alternanza riuscirà a eliminarli. Parlo delle ferite non rimarginate all’Aquila, città che ho visto rinserrata nei ponteggi, dopo oltre tre anni, come un prigioniero impietrito di Michelangelo. Parlo di San Giuliano di Puglia, dove sono andata per capire e vedere com’è iniziato questo strazio cui dovremo ormai dare il nome che merita: urbanicidio, rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate, riducendo in polvere la parola stessa che usiamo …