Con i vecchi soggetti politici ridotti a brandelli, sul Pd ricadono enormi responsabilità storico-politiche. Da solo resiste in un sistema che non c’è più, i cui argini sono crollati. Ciò impone a un partito solitario, che ha il senso del generale, di preoccuparsi non solo di garantire la tenuta dell’ordine costituzionale minacciato (le aggressioni al Colle sono l’ultimo bagliore) ma anche di progettare i momenti di innovazione necessaria. Solo con una autentica capacità egemonica il Pd potrà garantire al Paese di attraversare senza traumi insanabili una crisi di legittimazione della Repubblica che vede anche la secca perdita di tangibili referenti sociali. Il cupo dato di partenza è questo: sfiora nei sondaggi metà degli elettori l’area dell’antipolitica militante, che va da Berlusconi che invoca la lira all’urlatore genovese che inveisce contro il pianeta, dalla Lega che tenta di sabotare gli equilibri con l’arma presidenzialista a Di Pietro che ritrova il riflesso condizionato della demagogia. In bilico tra squarci di vago prefascismo e i soliti bagliori di un nuovismo assoluto, la politica deve districarsi tra sentieri stretti che potrebbero anche rivelarsi interrotti.
Ad ogni giuntura critica della sua storia, l’Italia riscopre l’ebbrezza dell’antipolitica come aspirazione a un radicale nuovo inizio che travolge le forme della rappresentanza. Essa diventa così una gigantesca fabbrica dell’immaginario a cui partecipano, con generosi stanziamenti, grandi potenze dell’economia e dei media (Telecom, Corriere della Sera, anzitutto) che restringono la vicenda politica alla noiosa favola della casta pur di distruggere il gioco delle alternanze. Il progetto è quello di distrarre le inquietudini giovanili e di sviare il risentimento dei ceti popolari imponendo come un senso comune la falsa credenza che anche gli ultimi baluardi del lealismo costituzionale (il Pd, Sel, l’Udc) sono solo dei miseri covi del malaffare. Questa borghesia, rimasta senza alcun senso del generale, non disdegna una involutiva uscita a destra dalla crisi che prepari l’apparizione di un nuovo leader che comanda in virtù solo del denaro e mira al potere per curare degli interessi particolari.
Il sogno è sempre quello di una de-democratizzazione che restituisca a un capitalismo incapace di riattivare la mediazione politica la facoltà di appropriarsi dello Stato con una fondazione-partito privata, un ennesimo partito-azienda. La crisi del sistema politico si congiunge per questo a una incorreggibile anomalia del capitalismo italiano che agogna una democrazia minore vista come il terreno più favorevole a sua maestà il denaro. Con il suo chiacchiericcio sul futuro e l’innovazione, questo mondo dorato guarda molto indietro, fino ad incarnare una variante postmoderna di Stato patrimoniale. Passando dalla democrazia di massa all’oligarchia dei pochi, non si recupera certo una effettiva capacità di governo e non si sprigiona un impulso alla crescita. Si fa dello Stato un territorio di appropriazione privata. Le conseguenze sono devastanti. L’impresa, con le mani in pasta nel potere, altera del tutto la concorrenza di mercato e riceve un surplus competitivo che converte in un notevole vantaggio economico. Lo Stato, che subisce una torsione affaristica, smarrisce le regolarità che nel moderno esigevano la comparsa di un potere dal volto astratto e impersonale e allontana così investimenti, rallenta la crescita. La borghesia italiana, che difetta di ogni senso dello Stato, pensa che per accostarsi al bene pubblico anche lo Stato debba convertirsi in una sua proprietà privata. Per questo dinanzi al Pd si prospetta la capacità di coniugare un’idea di democrazia e un’idea di società. Occorre, in casi simili, dosare una attitudine alla rassicurazione (anzitutto alla propria parte di società, che deve sentire di non essere sola) e una capacità di progettare sulle idee forza della sinistra un futuro possibile. Un interesse (il lavoro) deve rivelarsi dotato di apertura alla generalità.
I dati Istat o della Banca d’Italia confermano il ruolo che l’esplosione delle diseguaglianze ha avuto nella gestazione della crisi. L’Italia è in crisi soprattutto perché da 20 anni si è verificato un immane spostamento di ricchezza a favore del capitale a detrimento del lavoro dipendente e degli investimenti in innovazione. Le manovre infinite impongono sacrifici recessivi che non correggono questo nodo strutturale e non agevolano la crescita. Per far partecipare per un minimo ai sacrifici anche la parte di società che ha accumulato ricchezze spesso nascondendole al fisco, si devono introdurre tasse (Imu, Iva) che tutti pagano. Ciò comporta una strozzatura delle risorse da dirottare verso il lavoro e l’impresa produttiva. C’è bisogno di una politica di sinistra perché le diseguaglianze sono un fattore di crisi e anche causa di declino economico. La stessa impresa non cresce senza una ampia propensione al consumo. Se per il lavoro con la crisi si torna ai livelli di reddito del 1991 e se il 27% è indebitato è evidente che occorre una svolta che ruoti sui beni pubblici, che non possono deperire senza compromettere la crescita. Servono, anche in una fase di restrizioni di bilancio e obblighi al rigore, originali politiche attive contro le diseguaglianze e inventiva nelle politiche pubbliche per incentivare la crescita inclusiva, con misure per la cultura, l’innovazione, i giovani. Il contrario del mero risanamento ispirato al rigore che, se ha una parvenza di efficacia nella condizione di emergenza, non ha alcun impatto durevole nella gestione della crisi, e anzi rischia di saldare crisi politica e malessere sociale.
Chi sostiene che oggi il Pd si limita a tenere, mentre invece dovrebbe dilagare nei consensi, non ha capito proprio nulla delle dinamiche cieche che accompagnano una crisi di sistema. Il Pasok, comunque, ne sa qualcosa. Se, in tempi di catastrofe politica e sociale, la leadership del Pd riesce non solo a salvare un partito aggredito quotidianamente da potenze nemiche ma persino si candida realisticamente a portarlo al governo in una posizione centrale, essa può svolgere un ruolo storico. Questa è oggi la grande sfida. Altro che chiacchiericci di decadente marca conservatrice sulle rottamazioni dei gruppi dirigenti.
L’Unità 25.06.12