La volée con cui Pier Luigi Bersani ha ributtato la palla dal campo del Pd al campo più largo e ancora indefinito del centrosinistra, annunciando primarie aperte per la scelta del candidato a Palazzo Chigi, non ha spiazzato soltanto i potenziali alleati di Sel e Idv. Le parole pronunciate ieri da Matteo Renzi, ma anche il dibattito che si è svolto venerdì a Roma sulle «forme della politica organizzata» tra il segretario del Pd, gli intellettuali chiamati a raccolta dal Crs e i giovani dirigenti democratici dell’area «Rifare l’Italia», dimostrano che dalla coalizione che ancora non c’è la palla è rimbalzata a grande velocità dentro l’unico partito rimasto, cioè il Pd.
In campo ci sono diverse idee di rinnovamento. In alcuni casi, molto diverse. Bersani ha fatto le sue scelte: da un lato ha tenuto fermo il partito sulla linea del sostegno al governo Monti in nome della responsabilità nazionale, dall’altro, sul terreno del rinnovamento e della rilegittimazione della politica, ha puntato sulle primarie, confermando questa scelta di apertura delegando alla «società civile» le stesse nomine per il cda Rai. Una linea che appare in continuità con la tradizione del centrosinistra, e ribadita con nettezza davanti agli stessi intellettuali e dirigenti del convegno di venerdì, che quella tradizione avevano sottoposto invece a una severa revisione.
È una discussione verosimilmente destinata a riaccendersi, non foss’altro perché uno dei promotori di quell’incontro, Matteo Orfini, ha dedicato al tema buona parte del suo libro ( Con le nostre parole , Editori Riuniti), in uscita in questi giorni. «Nonostante logica volesse che fosse la principale indiziata – scrive Orfini a proposito della sconfitta elettorale del 2001 – la qualità del riformismo non è mai stata messa in discussione dalle classi dirigenti del centrosinistra, e la sconfitta è stata spiegata in altro modo». E invece è nelle concrete scelte dei governi di centrosinistra che si sono succeduti prima e dopo il 2001 che Orfini invita a cercare le ragioni dei successivi rovesci (scelte che contesta in quanto subalterne all’ideologia liberista, dalle privatizzazioni agli interventi sul mercato del lavoro). Conclusione: «Non riconoscerlo per cullarsi nel mito di una inesistente “meglio classe dirigente” a cui ispirarsi, o peggio, da cui ripartire, significherebbe semplicemente rimanere prigionieri del passato».
Se dunque Renzi sfida il segretario in nome del rinnovamento, invocando il pensionamento della vecchia guardia dei D’Alema-Veltroni-Marini, ma al grido «il liberismo è di sinistra», attorno a Bersani non manca una robusta corrente di pensiero che in nome del rinnovamento lo esorta a rottamare anzitutto il liberismo del centrosinistra. E forse anche quel governo Monti che un’altra parte del Pd, dal vicesegretario Enrico Letta al gruppo Modem, considera invece come il frutto più autentico del riformismo democratico.
Con l’annuncio delle primarie, Bersani prova forse a stornare dal governo le tensioni accumulate, e a ricompattare il partito lanciandolo in una competizione in campo aperto. Del resto, già all’indomani della crisi del governo Berlusconi, in nome della responsabilità nazionale, il Pd ha rinunciato a una prevedibile vittoria elettorale, venendone ripagato con l’accusa di avere contribuito allo sfascio del Paese al pari di tutti gli altri partiti. Proprio chi fino al giorno prima aveva flirtato con Berlusconi non ha esitato, il giorno dopo, a scaricarne le responsabilità sulla politica in generale, esaltando i tecnici come soli possibili salvatori. E ora che anche i tecnici vedono precipitare i propri indici di consenso, il gioco è pronto a ripartire: il loro fallimento sarà anch’esso colpa della politica. I cantori della sobrietà al governo sono già in fila per il prossimo Vaffa-Day. A ottobre, nel campo aperto delle primarie o in quello non meno accidentato delle elezioni anticipate, la costruzione dell’alternativa dovrà fare i conti con molti guastatori.
l’Unità 24.06.12