Comincia una settimana decisiva per l’Europa e per i suoi cittadini. E non serve addolcire l’amara realtà: il vertice di venerdì a Roma non è andato bene. Sì, è stata pronunciata qualche parola in più sulla necessità di usare il Fondo salva Stati per sostenere i titoli pubblici dei Paesi debitori, sulla opportunità di rafforzare gli investimenti per la crescita, persino sulla cessione di sovranità indispensabile affinché un domani si possa mettere in comune il debito.
Tuttavia, l’Europa ha bisogno di risposte urgentissime. E di interventi che abbiano un carattere risolutivo di fronte alla pressione dei mercati. Occorre dare nuove basi all’Unione monetaria. Ma tutto questo ancora non c’è. E non si risolve con soluzioni tecniche: c’è bisogno di una scelta politica di primaria grandezza e di portata storica. Il prossimo consiglio europeo sarà un crocevia. In gioco non c’è solo l’euro, come dicono alcuni irresponsabili: in gioco ci sono l’Europa, le condizioni di vita di milioni di famiglie, il nostro lavoro, i diritti conquistati da generazioni.
Mario Monti, grazie alla vittoria socialista in Francia e al pressing di Obama sull’Europa, dispone oggi di maggiori margini rispetto ai mesi scorsi per poter rappresentare la politica europeista del nostro Paese. Quella politica che Berlusconi non è stato capace di onorare.
Certo, l’esito del consiglio europeo non è sulle sue spalle. Ma è arrivato il momento di smentire la filosofia dei «compiti a casa». Anche sul fronte interno, dove il governo italiano è chiamato, persino per una questione di coerenza, a correggere la rotta: non ci si venga a dire che ogni riforma è una scelta tecnica! Dopo l’insopportabile «dimenticanza» sugli esodati, si può sperare in una riabilitazione della politica persino tra i cantori del grillo-montismo.
Il contenuto sociale e la necessità della crescita sono diventate priorità della transizione italiana. E non possono essere più separate dall’impegno dell’Italia in Europa. La partita da giocare è difficilissima. Ci insegue e ci morde la crisi più grave dal dopoguerra. Rischiamo un arretramento epocale, di cui l’individualismo senza etica pubblica è solo un costosissimo anticipo.
In questo passaggio difficile Berlusconi ha ripreso a fare Berlusconi. Ha cominciato a dire in pubblico che dell’euro si può fare a meno. Anzi, che si può escludere la Germania dalla moneta unica. Spera di risalire nei sondaggi dopo essere precipitato e non si vergogna neppure di scimmiottare Grillo. Che in Italia non riesca a strutturarsi una destra europea è sempre più un problema di sistema e un handicap per l’intero Paese. Berlusconi non riesce a rappresentarsi se non in versione populista. Nel frattempo, in Parlamento, la politica concreta del Cavaliere consiste ora nel sabotare ogni possibile intesa sulle riforme istituzionali. La leva del presidenzialismo serve a questo: nessuna persona dotata di buon senso può pensare di cambiare così radicalmente la forma di governo con un paio di emendamenti. Il presidenzialismo per Berlusconi è l’ordigno da utilizzare per far saltare in aria le riforme, vanificare la transizione istituzionale e destabilizzare la prossima legislatura (che sa di non poter governare). Se la Lega di Bossi e Maroni gli darà corda, questo avverrà. E il Porcellum resterà (al più con piccoli correttivi) il fondamento di un sistema sempre più pericolante.
Non è la transizione che volevamo. Il governo Monti non può restare neutrale di fronte a questo evidente ostruzionismo, così come non può restare neutrale davanti al tentativo del Pdl di impedire il varo della legge anti-corruzione o alle domande sociali più urgenti (a cominciare dagli esodati). Il governo dei tecnici non è nato per durare nel tempo come arbitro tra i competitori politici: è nato per dare un obiettivo a questa transizione, resa drammatica dall’incalzare della crisi. Chi, ancora oggi, auspica un governo Monti oltre le prossime elezioni, vuole che il Paese continui a sprofondare e dà l’impressione di temere che possa rialzare la testa.
Ora c’è anche l’obliquo attacco al presidente della Repubblica, a ridosso dell’inchiesta giudiziaria sulla trattativa Stato-mafia. C’è chi vuole dirottare la transizione, chi vuole impedire il cambiamento, come è avvenuto in altri momenti buoi della nostra storia nazionale. La solidarietà a Giorgio Napolitano è oggi premessa e condizione di un’opera di ricostruzione nazionale. A nessun democratico può sfuggire la strumentalità delle insinuazioni. Come a nessun democratico viene meno il desiderio di verità sulla storia italiana e sui tanti tratti oscuri. Sulle colonne de l’Unità si discute delle inchieste, delle questioni giuridiche ad esse connesse e della loro rilevanza civile. Per quanto ci riguarda, continueremo a cercare la verità, respingendo il tentativo eversivo di delegittimare chi oggi rappresenta l’unità del Paese, gli uomini delle istituzioni che si sono battuti contro la mafia e i magistrati che, con serietà, portano avanti il loro lavoro.
La transizione è un impegno. Una battaglia politica. Deve approdare a una competizione tra alternative europee, se vogliamo evitare di finire come in Grecia. Le primarie promosse da Bersani non sono un fine, ma uno strumento per ridurre la frattura tra rappresentanza politica e società civile. Non sono neppure il solo strumento. Ma devono produrre anch’esse un valore aggiunto al centrosinistra.
Le primarie del 2005, quelle di Romano Prodi, marcarono da subito le linee di fratture che poi avrebbero distrutto l’Unione. Le primarie servono per fare sintesi di un progetto e affidarlo alla leadership più rappresentativa. Nel caso malato di allora i leader sconfitti, disimpegnati dalla ricerca unitaria, continuarono a presidiare anche dopo i gazebo le rispettive quote di consenso. Si discute molto di regole delle primarie: ma, per evitare la deriva del 2005 e scongiurare il rischio di una nuova Unione, le primarie di domani dovrebbero offrire la spinta per rafforzare il Pd come luogo unitario di una più ampia base sociale e civica. Chi partecipa alle primarie, deve impegnarsi a stare in futuro nel medesimo partito. Un partito che si rinnova, che si apre. Un partito che vuole cambiare la politica, rappresentare in Europa l’Italia del lavoro e dell’innovazione, guidare un nuovo progetto di sviluppo.
l’Unità 24.03.12