Davvero non vale la pena interrogarsi su quale straordinaria occasione si sia sprecata a Rio, vent’anni dopo il primo summit sulla Terra. Già in quell’occasione abbiamo sentito gli stessi allarmi e le stesse identiche lamentele. Oggi c’è un solo punto di novità: la crisi economica gravissima che ci attanaglia. E che relega ancora di più l’ambiente in fondo alle preoccupazioni degli uomini del pianeta Terra. Poteva essere il momento giusto per comprendere la connessione fra la crisi economico finanziaria e il deficit ecologico che abbiamo scatenato in quegli ecosistemi che sono alla base del nostro benessere. Si sarebbe potuto discutere in modo meno ridicolo sugli aggiustamenti sintattici di protocolli sempre meno impegnativi e un po’ di più di cose concrete da fare. Si poteva proporre un modello nuovo di sviluppo che non fosse basato solo sulla crescita quantitativa, ma su efficienza e equilibrio, anche a favore di chi verrà dopo di noi. La riconversione ecologica del pianeta è inevitabile e non si può produrre una crescita infinta da sistemi naturali che sono, per definizione, finiti.
Ma quello che a Rio nel 1992 era un dubbio oggi è diventato una certezza: sono pochissimi gli uomini e i governi che si impegnano a cambiare rotta se gli eventi non diventano davvero drammatici. Si può opporre al cambiamento climatico l’abitante degli atolli oceanici minacciati direttamente dall’innalzamento del livello dei mari, non il cittadino statunitense del Midwest o il cinese di Shanghai che non si avvedono di alcun problema. I danni ambientali non vengono scaricati tutti insieme su una nazione progredita come un’alluvione, ma si distribuiscono giorno per giorno accumulandosi in maniera per ora impercettibile. Come si può pensare a una reazione significativa se il danno non è percepibile immediatamente?
Per questo forse il tempo dei grandi summit sulla Terra è finito: non solo non bastano più, ma rischiano anche di produrre un effetto indesiderato, quello di un rumore di fondo da cui è difficile estrapolare le emergenze reali. Se tutto è emergenza come si fa ad allarmarci ancora? Ciò non significa che le emergenze ambientali non siano gravi, tutt’altro, ma gli uomini quasi non vogliono più sentire che la temperatura media dell’atmosfera si innalzerà di 4°-5°C, perché fino a che lo sconvolgimento climatico non precipita sembra quasi inutile agitarsi. Ormai lo sappiamo benissimo: la sovrappopolazione e la crisi ecologica porteranno alla fine delle risorse e delle fonti energetiche tradizionali, all’inquinamento generalizzato e alla perdita di benessere del genere umano. Ma, siccome ancora non succede, possiamo sempre sperare che avvenga il più tardi possibile.
Se non se ne può più di conferenze sulla Terra, però non sarebbe giusto gettare l’acqua con tutto il bambino e si potrebbe recuperare una delle parole d’ordine del movimento ecologista mondiale: pensa globalmente e agisci localmente. Forse così si potrebbe avere una qualche possibilità di successo: è difficile difendere l’integrità della foresta amazzonica, anche se vale la pena farlo, se si abita a New York o a Milano. Lo dovrebbero fare in prima persona coloro che da quella foresta traggono ragione di vita sostenibile, cioè le popolazioni locali verso cui dovrebbero essere indirizzati, direttamente sul posto, gli aiuti internazionali. Soldi e energie agli autoctoni, non ai governi. Insomma, impedire che il bosco sotto casa venga ingoiato dal cemento è più facile che non difendere astrattamente la foresta globale della Terra.
Se si agisce localmente senza dimenticare la dinamica globale terrestre, ecco che anche la traduzione politica di quanto viene detto a Rio può diventare efficace. E in più si supererebbe l’effetto frustrante di agitarsi per grandi battaglie che non arrivano quasi mai al successo pieno. Difendiamo l’albero per difendere la foresta, l’individuo per la specie, il fiume per il mare e allora forse avremmo fatto un passo in avanti. A meno di non sperare nella risposta ultraliberista: niente più protocolli vincolanti ma solo la libera iniziativa degli stati. Ma se il libero mercato fosse in grado di risolvere quella che è la più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata di fronte lo avrebbe già fatto, senza attardarsi così pericolosamente vicino al punto di non ritorno.
La Stampa 23.06.12