Il significato dell’incontro di Roma è soprattutto politico. Quattro diventa più del doppio di due: si è rotta la strana diarchia franco-tedesca, che si era autonominata leader, e i quattro maggiori Paesi dell’area dell’euro si presentano meglio, col tono più legittimo di un gruppo di lavoro che prepara la discussione del Consiglio. Un gruppo che manca del tutto di arroganza e la cui azione è parallela a quella dell’altro quartetto più tecnico (i presidenti del Consiglio, della Commissione, della Bce e dell’Eurogruppo) che, come ha ricordato Monti, sta stendendo un progetto di integrazione politica a lungo termine. I dossier-proposte su cui decidere davvero, sul tavolo del Consiglio di fine mese, potrebbero così risultare talmente ricchi da rendere impossibile un nulla di fatto.
L’utilità del quartetto riunitosi a Roma, che non pretende di guidare l’Europa, è paradossalmente accresciuta dal fatto che si tratta di Paesi in condizioni molto diverse e con approcci e priorità di vedute che richiedono un confronto serio e faticoso per trovare conciliazione. E’ da questi confronti faticosi, da estendere subito a molti altri Paesi membri, che deve uscire l’Europa di domani, non da bacchette magiche o solidarietà improvvisata.
Il fatto che Monti abbia potuto ribadire che le regole della disciplina finanziaria sono state rotte nel 2003, in modo clamoroso, proprio da Francia e Germania, è significativo: vuol dire che è un gruppo dove ci si confronta con franchezza e non ci si limita a voler dar messaggi miracolistici ai mercati. E’ un gruppo dove alla Germania, che comincia a vedere nella sua stessa congiuntura i segni della crisi europea, si offre l’opportunità di attenuare l’impressione di essere un misto di paese-fenomeno, potenziale solutore dei problemi altrui e stopper dei progressi dell’integrazione. E’ un gruppo dove al nuovo presidente francese si offre l’opportunità di smentire, sia pur gradualmente, l’idea che sia proprio la Francia a ostacolare cessioni di sovranità nazionale.
L’incontro è stato breve ma è possibile che, tenuto conto anche dei lavori riservati che circondano i quattro leader, il loro avvicinamento su proposte condivise sia andato oltre i punti che hanno voluto esternare nella conferenza stampa finale. D’altro canto sarebbe stato inopportuno che i quattro, proprio per il diverso spirito con cui si riuniscono rispetto al Merkozy di prima, avessero preceduto la discussione con gli altri Paesi membri cercando di influenzare i mercati con la comunicazione di decisioni «precise e concrete». Qualche commentatore le voleva o se le attendeva. Ma precise e concrete le decisioni non avrebbero comunque potuto esserlo, se non discusse e condivise con gli altri Paesi membri, calate in una prospettiva più comunitaria che intergovernativa e raccordate al piano di lungo termine cui stanno lavorando i quattro presidenti.
Ciò detto non va taciuto che l’incontro di Roma non è stato senza conclusioni ma ha lasciato l’impressione che il lavoro da fare prima del Consiglio di fine mese è ingente e il contributo dei quattro per ora molto piccolo. Fra le conclusioni, le più significative sono due: l’impegno sull’irreversibilità dell’euro, che solennizzato da quei quattro, con l’euroscetticismo e gli strani piani B che ciascuno di loro sente mormorare a casa sua, non dovrebbe restare senza conseguenze; e l’impegno a mobilitare ingenti fondi per la crescita che, seppur con modalità ancora da precisare, non potrà non influenzare fortemente i lavori del Consiglio.
Quanto alle cose da fare, vanno distinte quelle per il breve da quelle per più tardi. Sul breve è cruciale che la sostanza della proposta fatta da Monti fin dal Messico venga in qualche modo accolta. La sostanza è che, per godere di interventi di stabilizzazione degli spread con acquisti di titoli pubblici con fondi europei, compresa in un primo tempo la Bce, non occorra essere sull’orlo del disastro e pronti a forme eccezionali di extradisciplina. Se un Paese riceve l’approvazione e il monitoraggio della Commissione sui suoi piani di riequilibrio finanziario, ciò deve bastare. Se i mercati, ad esempio, sovra-reagiscono al problema greco facendo salire molto lo spread italiano, nonostante i nostri conti rimangano buoni e approvati da Bruxelles, è opportuno che con fondi comunitari si metta riparo alle esasperazioni. L’iniziativa di intervenire dovrebbe essere degli stessi responsabili dei fondi, senza che l’Italia prenda altri impegni e senza che nemmeno lo richieda.
Per l’orizzonte più lungo, pare di capire che il quartetto dei presidenti punti a una prima tappa di cosiddetta unione bancaria, una seconda di unione fiscale, una terza, più lontana, di unione politica. L’essenziale è partire davvero, con molta concretezza e debita urgenza, con la prima tappa. Il sistema bancario europeo è paurosamente segmentato lungo confini nazionali, incapace di far circolare il credito, disseminato di sospetti e sfiducie reciproche nonché di protezioni opache delle autorità nazionali, ciascuna a favore dei «suoi» banchieri: nonostante il supporto della Bce, non può più aspettare una drastica riforma . Le banche di qualche rilievo devono essere «europee», non nazionali: devono essere regolate e vigilate in modi omogenei, mettendo in comune le informazioni sui rischi che corrono, riversate presso un unico vigilante centrale, con ovvie articolazioni nazionali, che non sarebbe male fosse la stessa Bce. Questa riforma dovrebbe essere gradita anche a Merkel. La quale, nei confronti delle banche tedesche, non ha mancato, in passato, di mostrarsi a tratti giustamente severa. E le banche tedesche sono fra quelle che necessitano di una vigilanza meno di favore di quella che hanno finora avuto. Anche la gestione della crisi e l’eventuale salvataggio di una banca europea devono essere comunitari, con fondi comunitari, perché i guai delle banche spagnole, per esempio, non sono senza conseguenze per i contribuenti italiani. A proposito, perché non trasformare la Tobin tax, che rimane una vaghezza poco realizzabile, in una tassa per contribuire a finanziare un fondo europeo comune per l’assicurazione dei depositi bancari?
La Stampa 23.06.12