attualità, politica italiana

"Chi gioca allo sfascio", di Carlo Galli

Sono molti i piani su cui deve essere valutata tutta la vicenda che ruota intorno al caso Mancino-Procure-Quirinale; una vicenda che ha prodotto un irritatissimo comunicato della Presidenza della Repubblica. Da un punto di vista giuridico-penale, con buona pace di Antonio Di Pietro, non vi è nulla di rilevante a carico del presidente Napolitano. Il quale, anzi, ha correttamente esercitato le proprie prerogative.
QUANDO con lettera ufficiale e pubblica ha invitato il pg della Cassazione a far sì che le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze si coordinino tra di loro, per il miglior funzionamento della Giustizia – che è tutt’altro che un’interferenza nelle indagini, ma anzi è quanto il presidente del Csm (appunto, Napolitano) deve fare in virtù del proprio ufficio –.
Vi è poi un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo. Il senatore Mancino si è mosso come se fosse ancora in grado di esercitare un qualche controllo sulle toghe, o come se fosse molto preoccupato di quanto può uscire da indagini e testimonianze; e cita nomi illustri di politici del passato, come a coprirsi o a coprirli. E chiede aiuto a un illustre interlocutore, D’Ambrosio – magistrato in pensione, consigliere giuridico del Quirinale (dove è giunto dai tempi di Ciampi), a suo tempo estensore dell’articolo 41 bis (sul carcere duro ai mafiosi) –, il quale si mostra invero prodigo di consigli e di suggerimenti verso Mancino. Con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili, ma che, riportate dai quotidiani, non fanno, nel complesso, un bell’effetto. Poiché si prestano a letture in chiave di privilegio, di casta, e insomma contengono spunti – senza che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con Napolitano – che possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di antipolitica generalizzata.
Infine, c’è un livello etico-politico di lettura dell’intera materia. La fine della Seconda repubblica, che stiamo vivendo, si specchia nella fine della Prima; con troppe continuità di uomini e di problemi, ma anche con qualche differenza. Se sono state intavolate trattative fra Stato e mafia dopo le stragi dell’estate 1992, per ordine di chi, attraverso quali canali, su quali temi, con quali poste in palio; perché ci sia stata in seguito la revoca, per un certo numero di delinquenti, del regime del 41 bis: tutto ciò è appunto l’oggetto delle indagini. Che stabiliranno, si spera, responsabilità individuali, e consentiranno anche di valutare se quell’esercizio della ragion di Stato – opaco, remoto, sottratto finora al giudizio dei tribunali, degli
storici, dei cittadini – abbia davvero salvato qualche bene supremo, o se invece abbia soltanto affondato, com’è più probabile, l’etica pubblica.
Oggi, nel tramonto della Seconda repubblica, caratterizzata da forte ambivalenza rispetto alla mafia (cioè da rapporti di dura repressione, ma anche da sospetti di contiguità sistemica – difficile da provare giudizialmente, come si sa – di una parte del ceto politico con la criminalità organizzata), si coglie l’occasione di attaccare il Quirinale cercando di associarlo, in qualche modo e in qualche misura, a questioni che hanno a che fare con rapporti fra politica e mafia. E ciò denota un altro e diverso abisso etico-politico.
Allora, nel 1992 e nel 1993, si diede il colpo di grazia a una legalità già calpestata da un ceto politico in via di estinzione, mentre ai nostri giorni si cerca di abbattere, delegittimandola, un’istituzione, la presidenza della Repubblica, che ha dimostrato di avere capacità di tenuta e di visione strategica nel momento forse più critico della nostra storia repubblicana. Perno e garante degli equilibri politici, sostegno all’attività del governo, baricentro della repubblica, investito dalla stima di tutti i politici del mondo, e di tutti i cittadini italiani, Napolitano può essere aggredito, o sospettato, o calunniato, o infangato, o fatto oggetto di distorsioni interpretative, solo da chi – garantista o giustizialista, poco importa – in perfetta malafede e con spaventoso cinismo sta cercando il pretesto per far saltare l’intero quadro politico e gioca allo sfascio, al «tanto peggio tanto meglio», forse per ritagliarsi uno spazio – lucrando voti sul disgusto dei cittadini verso la politica, i partiti, le istituzioni – nel prossimo Parlamento (nato, semmai, da elezioni anticipate, celebrate in chissà quale clima di sfiducia e di esasperazione), o forse per sottoporre il Quirinale a pressioni dalle finalità non chiare (la successione al Colle?).
Tutto è torbido in questa torbida vicenda, che paradossalmente nasce dal tentativo di far luce sull’oscurità di vent’anni fa. Una cosa sola è lampante: che una crisi, aperta o sotterranea, che mini l’autorità e il prestigio del Capo dello Stato è, in queste condizioni, qualcosa di più che un atto di irresponsabilità: è un attentato alla democrazia.

La Repubblica 22.06.12

******

“Il bersaglio è il Quirinale”, di Claudio Tito

Le telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino con il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, sono esplose in un caso politico. La tensione è altissima. L’attenzione è tutta rivolta verso il capo dello Stato. Che, però, non intende accettare il piano inclinato che porta verso una sua responsabilità. E, anzi, liquida tutto come una «combinazione perversa di elementi ».
Soprattutto respinge l’idea che il Colle possa trasformarsi in un “fortino” da assediare. Una controparte con cui fare i conti e non il magistero che garantisce la Costituzione. «Sono allibito», ripete da giorni l’inquilino del Quirinale. Allibito in primo luogo dall’interpretazione dei fatti che a suo giudizio sono piuttosto chiari. E che mettono in evidenza come gli uffici della presidenza siano vittime di una «campagna» e non artefici.
Lo «stillicidio» di indiscrezioni — dicono sul Colle — sta sempre più assumendo la forma di una «operazione» contro la presidenza della Repubblica. Nel 1993 il suo predecessore, Oscar Luigi Scalfaro, rispose in una situazione analoga con il famoso «non ci sto». A diciannove anni di distanza, Napolitano ricorre ad una tattica analoga e boccia la «campagna costruita sul nulla ». È una sorta di «non ci sto» riveduto e corretto. Che, del resto, Napolitano ricorda bene perché in quegli anni ricopriva la terza carica dello Stato, la presidenza della Camera. Alla quale venne eletto dopo la “promozione” proprio di Scalfaro al Quirinale.
Così, dinanzi alle polemiche blinda il suo staff. Rivendica alla struttura “presidenziale” la correttezza e la lealtà verso gli altri organismo dello Stato e soprattutto la linearità nei confronti degli impegni fissati dalla Costituzione. Chiede a D’Ambrosio di rimanere al suo posto. La disponibilità a rimettere l’incarico era stata sottoposta nei giorni scorsi all’attenzione del capo dello Stato, ma non è stata nemmeno presa in considerazione.
Eppure gli interrogativi che in questi giorni sono stati ripetuti nello studio alla Vetrata, non hanno ancora trovato risposta. «Chi ha organizzato questa manovra? Quali sono le finalità che la animano? Esistono davvero delle intercettazioni telefoniche del capo dello Stato iscritte in un brogliaccio?». I dubbi e i sospetti sono tanti. E il presidente della Repubblica è soprattutto interessato a mettere in evidenza tutti gli aspetti «istituzionalmente rilevanti». A cominciare dal fatto che negli interventi del Colle non c’è stato alcun tentativo di orientare o ritardare le indagini in corso. Del resto, il richiamo al discorso svolto il nove giugno del 2009 dinanzi al Csm e alla legge 159 sull’attività di coordinamento delle indagini da parte del procuratore generale presso la Cassazione e del procuratore Antimafia, fa parte di uno schema difensivo che punta proprio a dimostrare che Napolitano ha voluto esclusivamente sottolineare gli obblighi di legge. E soprattutto che non c’è stata alcuna violazione delle norme.
Una linea illustrata anche nei contatti intercorsi ieri tra il Quirinale e Palazzo Chigi. Ieri il capo dello Stato e Monti si sono incontrati anche a L’Aquila, durante la cerimonia di insediamento del nuovo vertice della Guardia di Finanza. E pure in quell’occasione è emerso il fastidio nei confronti di chi mette in dubbio l’imparzialità del suo ruolo. Un sospetto che fa indignare il presidente della Repubblica sempre preoccupato di essere e apparire «coerente e corretto». Sul Colle sono a questo punto convinti di aver fatto tutto il possibile per smentire le eventuali perplessità sull’operato di Napolitano.
Restano però le perplessità sulle origini della vicenda. «È chiaro che il bersaglio di questa operazione è il capo dello Stato — ragionano al Quirinale — ma chi ci sia dietro, non lo sappiamo ». Di certo, in questi giorni tutti gli uomini del presidente sono convinti che sia stato sparso «veleno» da diversi centri di potere. Persino la possibilità che il telefono di Napolitano sia stato intercettato viene letta come una forma di minaccia o pressione su cui riflettere. A cominciare dall’uso e dalla distorsione di questo strumento investigativo importante: «È normale che venga “ascoltato” il telefono del presidente della Repubblica?».
E qualcuno — soprattutto gli esponenti del Pd e dell’Udc che più di frequente parlano con il presidente della Repubblica — ha iniziato a ipotizzare che dietro ci possa essere anche il tentativo di indebolire la più alta carica dello Stato per rendere più fragile il governo. I riflettori di una parte della “strana maggioranza” sono dunque puntati su un alleato. Quel Pdl che in queste ore è tornato a sventolare la bandiera delle elezioni anticipate rispolverando il vecchio asse con la Lega. Anche ieri, infatti, Silvio Berlusconi non ha escluso con i colonnelli del suo partito il rischio di un definitivo redde rationem a luglio per andare al voto in autunno. E lo stesso Cavaliere non ha nascosto che il principale ostacolo alle urne è rappresentato, guarda caso, dal Quirinale. Contrario a interrompere anticipatamente la legislatura per la seconda volta in sei anni. Contrario a riportare al voto gli italiani senza una nuova legge elettorale e soprattutto allarmatissimo di interrompere l’azione dell’esecutivo Monti in una fase critica dell’economia mondiale e delle trattative europee per affrontare l’emergenza. Senza dimenticare che quello del Professore è stato fin dalla sua nascita definito il “governo del presidente”. «Tutti quindi — è il monito del Quirinale — si devono chiedere quali sono gli obiettivi di questa operazione».

La Repubblica 22.06.12

******

Napolitano: «Sono io che voglio tutta la verità»
Il Capo dello Stato accusa: «Contro di me una campagna
di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla»
«Gli italiani possono stare tranquilli, terrò fede ai miei doveri»
di Marcella Ciarnelli

A fermare «insinuazioni e sospetti», interpretazioni di comodo e manipolazioni, da parte di politici e giornali sul presunto ruolo avuto dal Quirinale a proposito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia nei primi anni novanta che vede coinvolto Nicola Mancino, non erano bastati l’aver reso noto il testo di una lettera riservata sull’argomento, non certamente interpretabile come un’ingerenza o una pressione, e le puntualizzazioni successivamente fatte dai collaboratori del Capo dello Stato. E così, dopo una settimana di offensiva, per far comprendere a tutti che la misura è colma, è stato lo stesso presidente della Repubblica a intervenire in prima persona per fermare «una campagna di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla» nei suoi confronti ed in quelli dei suoi più stretti collaboratori.
In modo netto Napolitano ha liquidato la campagna portata avanti, con particolare veemenza in questi giorni, sul fronte politico in particolare da Antonio di Pietro e, quindi dall’Idv, e su quello giornalistico dal Fatto quotidiano, capofila di altri organi di stampa. «Si sono riempite le pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate in ordine alle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose stragi di mafia del ‘92 e del 93, e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose, talvolta persino versioni manipolate» ha affermato il presidente ricordando, a chi non avesse prestato attenzione che «tutti coloro che sono intervenuti e stanno intervenendo avendo una seria conoscenza del diritto e delle leggi e dando una lettura obbiettiva dei fatti, hanno ribadito l’assoluta correttezza del comportamento della presidenza della Repubblica ispirata soltanto a favorire la causa dell’accertamento della verità anche su quegli anni».
INSINUAZIONI E SOSPETTI
Non hanno avuto nè il tono, nè la sostanza della peraltro non necessaria autodifesa, le parole del presidente della Repubblica. Ma piuttosto sono risuonate come un messaggio chiaro: misura è ormai colma. Con la consapevolezza di aver «reagito con serenità e con massima trasparenza» a quella che lui non ha avuto dubbi nel definire «una campagna di insinuazioni e sospetti». Ed agli italiani ha voluto ribadire il suo costante impegno «ad operare, perché è mio dovere e mia prerogativa, affinché vada avanti nel modo più corretto e più efficace, anche attraverso i necessari coordinamenti, l’azione della magistratura. I cittadini possono essere tranquilli che io terrò fede ai miei doveri costituzionali». E tra questi c’è sicuramente, fa capire il Capo dello Stato, c’è quello della ricerca della verità che è lui per primo a chiedere, sugli eventi di quegli anni ma anche sulle manipolazioni e sulle provocazioni di questi giorni.
«Sono io che voglio la verità». È questo il messaggio del presidente che ha vissuto «sereno» questi giorni di tensione perché convinto di avere sempre rispettato l’ambito delle sue prerogative e di non aver svolto alcuna pressione per favorire qualunque interprete di una storia complessa e piena ancora di ombre. E sono proprio queste, e il rischio di destabilizzazione che da esse può venire se svelate a tempo, che hanno preoccupato il presidente che nella sua lunga vita politica e nelle istituzioni ha vissuto tante stagioni difficili di un Paese che lui ha voluto rassicurare, al di là delle cosiddette rivelazioni, con i connotati delle insinuazioni e dei sospetti.
Sono stati giorni difficili. A fermare la campagna politica e mediatica nei confronti del Colle non sono bastati tutti gli elementi messi a disposizione. Non è bastata la lettera riservata resa nota «per stroncare ogni irresponsabile illazione» sul seguito dato dal Capo dello Stato a delle telefonate e ad una lettera del senatore Mancino. A firmarla il segretario generale della Presidenza, Donato Marra. Destinatario il Procuratore generale della Corte di Cassazione. In essa l’auspicio del Capo dello Stato, già ribadito davanti al Csm in più occasioni, che «possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità d’indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede e, quindi ai sensi delle attribuzioni del Procuratore generale della Cassazione fissate dagli articoli 6 del decreto legislativo 106/2006 e 104 del 159/2011» al fine di «dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali». Non è bastato il rinnovato richiamo dagli elementi esplicativi delle norme a cui faceva riferimento la lettera. Non è bastato il puntuale intervento del ministro Severino alla Camera. Non sono bastate le prese di posizione di gran parte dei soggetti coinvolti, compreso magistrati che conducono le indagini e che hanno espresso più che perplessità in ordine ad una campagna politico-mediatica fatta di cosiddette rivelazioni su ipotetici suggerimenti che dal Quirinale sarebbero stati dati a Mancino su come agire ed anche a proposito di possibili intercettazioni dello stesso presidente della Repubblica di cui si afferma l’esistenza senza porsi neanche per un istante la liceità di una operazione di questo genere.
A proposito di intercettazioni e della necessità di una legge che le regoli il presidente ha detto: «Questa è una scelta che spetta al Parlamento ed è per la verità una scelta da molto tempo all’attenzione del Parlamento. Se da tanto tempo è all’attenzione del Parlamento vuol dire che si tratta di una questione che meritava già da tempo di essere affrontata e risolta sulla base di una intesa la più larga possibile».

l’Unità 22.06.12

******

La macchina del fango oltre la “trattativa”, di Emanuele Macaluso

“IL FATTO QUOTIDIANO”, CHE OPERA COME AGENZIA DELLA PROCURA DI PALERMO, O MEGLIO DI UN PEZZO DELLA PROCURA, IERI HA RIVELATO CHE UN INTELLIGENTISSIMO GENERALEdiceva al collega Mario Mori che io sono il «ventricolo del Quirinale», scoprendo un inedito: che sono «grande amico»di Giorgio Napolitano. Ergo quel che dico e scrivo rispecchiano le opinioni del presidente della Repubblica. Che tra i militari ci sia qualche cretino disinformato sulle persone che hanno avuto una comune storia nel Pci, e nel dopo Pci, è comprensibile, ma giornalisti di lungo corso come il direttore del Fatto dovrebbero sapere qualcosa di più e di meglio su queste persone.
Lo sanno, ma i doveri della propaganda nel corso di una campagna forsennata contro il Quirinale fa premio sulla professionalità. Miserie. Tuttavia una questione va sollevata: la procura di Palermo, anzi quel pezzo di procura, distribuisce intercettazioni che non hanno attinenza al processo sulla «trattativa». A che gioco gioca? Fornisce foglietti di propaganda alla sua agenzia per scopi estranei al processo?
Sempre sulla questione intercettazioni dal Fatto apprendiamo che sono state intercettate telefonate del presidente della Repubblica. E si dice che sono state inserite nel brogliaccio e non trascritte perché irrilevanti. Ma intanto si fa circolare la notizia. Tuttavia, quelle intercettazioni non erano solo irrilevanti, ma illegali e parte di una manovra che serve a «mascariare» anche il Capo dello Stato.
Una vergogna. Attenzione, questi giochi danno argomenti a chi vuole quella che viene definita «legge bavaglio» e i giornalisti di tutte le testate non possono far finta di non accorgersi di quel che avviene in questo campo. Sia chiaro, io me ne frego di quel che dicono il generale e il Fatto, la mia storia non ha bisogno di avalli anche perché non temo rivelazioni: non ho scheletri nell’armadio ma solo qualche vestito.
Chiudo qui questa questione, anche perché mi preme dire qualcosa sul tema della trattativa «Stato-mafia». Poche cose perché condivido tutto quel che ha scritto su questo giornale Giovanni Pellegrino. La replica del dottor Ingroa è impacciata e imbarazzante. Pellegrino ha scritto quel che ha scritto perché, come dice il pm di Palermo, «permangono equivoci comunicativi»? Gli stessi «equivoci» hanno mal consigliato il professor Giovanni Fianduca (suo maestro di diritto, lo definisce Ingroia) a dare i giudizi che ha dato? L’equivoco, illustre dottor Ingroia, non è nella comunicazione, ma negli atti giudiziari e nella sfrenata campagna che su di essi conducono alcuni giornali e l’on. Di Pietro.
Ingroia, nel suo articolo, dice che «la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo». Giusto. Ma il suo processo si fa sulla «trattativa tra Stato e mafia». E se si chiama in causa lo «Stato» come parte della trattativa con la mafia, l’inchiesta giudiziaria non ha una valenza politica? E chi è lo Stato? Certo la chiamata in causa, come indagati o come testi, di alcuni ex ministri con clamorosi confronti, ex presidenti del Consiglio (Amato), un guardasigilli come Conso, generali e graduati, fa pensare ad organi dello Stato.
Viene evocato anche il nome di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica, tv e giornali amplificano e si dà un quadro confuso in cui l’unico dato che appare certo è lo «Stato» che tratta. Se invece si esaminano con attenzione i «casi» delle persone chiamate in causa, alle quali occorre contestare un reato preciso, il quadro cambia e non si capisce più dov’è e cos’è la «trattativa tra Stato e mafia».
Facendo questo discorso non ci sfugge il contesto politico degli anni che segnano la fine della prima Repubblica. Sul logoramento e l’indebolimento del quadro politico, dei partiti si è scritto tanto. In questo quadro va collocato lo stragismo mafioso che si apre nel 1979 (Boris Giuliano e Cesare Terranova con Lenin Mancuso vengono uccisi in quell’anno) e si chiude con l’uccisione di Falcone, Borsellino, le loro scorte e i cittadini massacrati a Firenze, Milano e Roma.
Ma nel 1992 durante la campagna elettorale venne ucciso Salvo Lima, uomo politico di riferimento della mafia di Bontade ed esponente della corrente andreottiana. Non ho dubbi quindi che Cosa Nostra intervenne con violenza inaudita per condizionare un quadro politico traballante e un personale politico indebolito. Tuttavia, ecco il punto politico, la reazione popolare fu tale da condizionare a sua volta quel mondo e in maniera tale da produrre un’azione che, con limiti e contraddizioni, diede un colpo durissimo alla mafia, costringendola a cambiare strada. È chiaro che questo fu possibile anche grazie all’opera di tanti magistrati e uomini dello Stato (ricordo per tutti il generale Dalla Chiesa) che pagarono con la vita la reazione statale all’aggressione mafiosa. E con loro uomini della politica, Mattarella e La Torre, ma anche il dc Michele Reina, che con coraggio si staccò dal sistema.
C’è un’ultima questione che pongo ai lettori. Alcuni anni fa la casa editrice Laterza pubblicò un libro scritto dal giornalista della Stampa Maurizio Molinari, «L’ Italia vista dalla Cia», in cui si racconta (leggendo documenti Usa) che dopo l’uccisione di Falcone l’Fbi chiese ai ministri Scotti e Martelli di partecipare attivamente alle indagini, ottenendo un pieno consenso. Dopo l’uccisione di Borsellino fu fatta la stessa richiesta, sempre attraverso l’ambasciatore Secchia, ottenendo consenso. E furono fatte riunioni organizzative. Nel dicembre del 1993, il direttore dell’Fbi, Luis Freeh, si incontrò a Roma con Conso e Mancino per coordinare la lotta contro la mafia. Documenti Usa non smentiti. Chiedo: la trattativa fu condotta anche alle spalle dell’Fbi?

l’Unità 22.06.12