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"Il partito? È società civile", di Claudio Sardo

Si può ironizzare sulla scelta del Pd di sostenere per il Cda della Rai Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, indicati da movimenti della società civile. Si può dire che Tobagi e Colombo non vantino specifiche professionalità (sebbene il ruolo dei consiglieri non dovrebbe essere quello di condirettori aggiunti o di supporto, semmai questa esorbitanza è parte della malattia Rai). Si può dire che il Pd abbia abdicato, con demagogia, alle sue prerogative (e magari la denuncia viene persino dai censori della partitocrazia e dell’occupazione del potere). Si può dire che il Pd si stia arrendendo ai gruppi di pressione che cercano di assaltare il suo quartier generale e che stia rinunciando ai propositi di “partito solido”.
(Ma davvero il Pd deve concepirsi come un soggetto in lotta permanente col mondo circostante, come se la sua necessaria autonomia vada vissuta come una ossessione minoritaria?).
La scelta di affidare i posti del cda Rai ad alcuni movimenti della società civile ha invece una stretta parentela con le primarie, annunciate da Pier Luigi Bersani quando ancora non è chiaro lo schema politico e istituzionale (la legge elettorale) in cui si svolgeranno le prossime elezioni. Si tratta di decisioni che contengono una forte dose di rischio, e persino qualche tratto di irrazionalità politica. Ma che rispondono a una esigenza oggi vitale: ridurre lo scarto (pericoloso e crescente) tra opinione pubblica e rappresentanza democratica, tentare di riportare in un circuito riformatore tante energie civiche che oggi rischiano la deriva nella sfiducia, se non addirittura nel risentimento.
Nulla di tutto ciò si può fare senza rischiare, senza rimettersi in discussione, senza aprirsi al confronto e anche a qualche inevitabile contraddizione. Ma solo un pazzo oggi può negare il pericolo democratico che abbiamo di fronte. Come non vedere che, in un Paese come la Grecia, dove la crisi ha scavato nel modo più drammatico, a pagare il prezzo più alto del marasma sociale è proprio la sinistra europea (surclassata da un lato da una destra appena riverniciata e dall’altro da un radicalismo senza cultura di governo e senza legami in Europa)?
La seconda Repubblica cominciò proprio nel segno della divisione, anzi della contrapposizione, tra partiti e società civile. Per vent’anni l’ideologia berlusconiana si è sorretta su questa pietra angolare. Si poteva sperare che, chiuso il ciclo berlusconiano, la faglia si sarebbe ricomposta: invece si sta allargando. Tocca al partito che vuole rinnovarsi battere un colpo e non chiudersi a riccio. Tocca al partito dimostrare di essere innanzitutto espressione della “società civile” e non diramazione di istituzioni.
È vero che il rinnovamento, per inverarsi, ha bisogno di un sistema efficace e dotato di giusti contrappesi. Se non cambieremo il Porcellum, non basteranno le primarie del Pd per riportare l’Italia agli standard democratici europei. Se non si arriverà rapidamente ad una riforma della governance Rai, non sarà certo il nuovo cda a invertire la rotta che spinge al declino la maggiore industria culturale del Paese.
Tuttavia, la politica è azione, decisione, rischio. Bisogna muovere verso un obiettivo. Non solo aspettare che il disordine si plachi. Le recenti nomine all’AgCom e all’ufficio del Garante della provacy hanno suscitato giuste proteste. Perché lo scambio politico ha prodotto risultati discutibili (in qualche caso scandalosi) e perché la trasparenza è stata deficitaria. Ma guai a confondere il limite che deve avere l’azione dei partiti con la legittimità del Parlamento a decidere per alcuni ruoli di garanzia. I partiti sono presenti in Parlamento perché rappresentano gli elettori e parti di società civile. Proprio perché sono chiamati dalla Costituzione a determinare la politica “nazionale” devono ritirare la loro presenza (tuttora eccessiva e malata) da enti e strutture che appartengono al pubblico e che meritano autonomia. Peraltro, il pubblico va liberato dall’impronta “partitica” anche perché va rilanciato, a dispetto di quanto dicono i liberisti incalliti.
Il Parlamento, in ogni caso, non è la sommatoria dei partiti. Lasciamo alla destra radicale la polemica antipartitica che si trasforma in una contestazione antiparlamentare. Al Parlamento possono, debbono essere affidate scelte di garanzia (prima fra tutte quella del Capo dello Stato). A chi bisognerebbe delegare altrimenti? Ai governi pro-tempore? Agli ottimati che frequentano i salotti che contano? Per spezzare il cerchio della sfiducia è necessario piuttosto rafforzare le procedure della trasparenza. Il problema non sono i curricula dei candidati: il Parlamento non potrà mai trasformarsi in un commissione di concorso. Il problema è evitare scambi al ribasso, che premiano fedeltà di cordata invece della qualità e dell’equilibrio.
È necessaria una capacità di autoriforma del partito (di ogni partito). Più espressione della società, più radicamento popolare, meno partito degli “eletti”, zero occupazione di istituzioni autonome. Un partito più libero può essere più forte e autorevole in Parlamento. Dove si decide innanzitutto il governo del Paese. È questo il banco di prova della vera autonomia del partito: gli ottimati vogliono comprimere questa facoltà (e in fondo sono meno allarmati dalla partitocrazia).

l’Unità 20.06.12