Le riunioni dei G8 e dei G20 sono caratterizzate, di regola, da un buonismo di facciata. Tutti sono d’accordo su grandi ovvietà, tutti sorridono nella «foto di famiglia», i contrasti e i litigi trovano spazio, con discrezione, dietro le quinte e non emergono nel comunicato finale, già scritto prima che la riunione abbia inizio. Non è andata così al G20 di Los Cabos: non ci sono stati risparmiati i confronti, le polemiche e neppure i dispetti. Dall’invettiva del presidente della Commissione Europea contro gli americani, ai quali ha ricordato, in modo brusco e poco diplomatico, di essere loro i responsabili della crisi economica mondiale fino alla cancellazione, o quanto meno al rinvio, di un incontro tra il Presidente degli Stati Uniti e i leader europei, largamente interpretato come uno «sgarbo» di Obama.
Questo nervosismo superficiale cela in realtà un colossale scontro di potere che si è chiuso negativamente per l’Europa: gli europei sono andati a Los Cabos con due convinzioni parzialmente errate.
La prima è che la crisi greca fosse, in quale modo considerata come l’elemento centrale della crisi economica globale, un’opinione alimentata dai mezzi di informazione, mentre rappresenta in realtà un elemento secondario di un contrasto assai più profonda sulla natura dell’Europa economica.
La seconda convinzione è che, in ogni caso, i rapporti tra l’euro e il dollaro, le due principali monete internazionali, avrebbe segnato il momento centrale dell’incontro.
Dalle prime indicazioni, la realtà si è rivelata ben diversa: gli europei nel loro complesso sono stati, senza troppi complimenti, «spintonati» e messi in seconda fila dall’azione coordinata dei Brics, una sigla che indica i paesi emergenti più dinamici o importanti, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che, proprio a Los Cabos, hanno compiuto la metamorfosi definitiva da entità statistica a entità politica. Per quanto estremamente diversi tra loro dal punto di vista economico e politico, sono riusciti a varare un’azione incisiva e unitaria che controbilancia la loro crescente irruenza sui mercati finanziari. E’ sufficiente ricordare che i cinesi di Hong Kong si sono appena comprati il London Metal Exchange, una Borsa specializzata, principale luogo di contrattazione dei metalli non ferrosi, tra i quali alcuni piuttosto rari che molto interessano ai Paesi emergenti.
In particolare, annunciando (assieme all’Arabia Saudita) un loro contributo abbastanza sostanzioso all’aumento delle risorse del Fondo Monetario Internazionale destinate a contrastare la debolezza dell’euro, i Brics hanno quasi certamente ottenuto un aumento dei loro diritti di voto negli organi esecutivi dello stesso Fondo, sicuramente giustificabile, già all’ordine del giorno da molto tempo ma sempre rinviato per latente opposizione europea. E’ facile immaginare, infatti, che i diritti aggiuntivi di voto attribuiti a questi Paesi saranno tolti all’Europa assai più che agli Stati Uniti e che il successore della francese Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo, sarà un brasiliano o un asiatico.
La debolezza europea non è naturalmente provocata tanto da partner esterni quanto da contrasti interni all’Europa. Gli europei sono profondamente divisi su ciò che dovrà essere l’Europa economica del prossimo futuro e hanno di fatto ricevuto al vertice di Los Cabos una solenne ramanzina per non esser riusciti a sanare le loro profonde divergenze. Sapremo nei prossimi giorni se la sempre più glaciale Angela Merkel abbia in realtà fatto qualche concessione delle quali non c’è per ora traccia e come evolverà il confronto con il quasi altrettanto glaciale neo-presidente francese François Hollande. La grande giornata delle Borse europee si spiega con un parziale recupero di un ribasso provocato da forti movimenti speculativi, ancora assai piccolo di fronte alle perdite degli ultimi tre mesi.
L’Europa esce dal G20 senza alibi: il suo problema non è l’euro, che può contare su una solidità di fondo – se comparata con il dollaro – in termini di debiti complessivi e deficit di bilancio, bensì il patto politico che tiene assieme gli europei. Stretto circa sessant’anni fa, era basato sull’orrore per le distruzioni provocate da una delle guerre più terribili dell’umanità e sulla necessità che gli europei smettessero di considerarsi nemici e diventassero fratelli anche grazie alla cooperazione economica. Ma oggi, con l’aumento del peso elettorale francesi, tedeschi, italiani e quant’altri vogliono davvero diventare fratelli? O si accontenterebbero, in definitiva, di essere lontani cugini, sommariamente legati da un patto doganale? E’ una domanda legittima visti gli andamenti elettorali dei movimenti xenofobi e di quelli ultra-regionalisti,
Il compito di cercare di uscire da questa terribile stasi è stato delegato al presidente del Consiglio italiano. Mario Monti ha parlato di scelte da prendere entro dieci giorni, con un occhio all’incontro di dopodomani a Roma, al quale parteciperanno i capi di stato e di governo di Germania, Francia e Spagna, oltre che naturalmente dell’Italia. L’Italia è il Paese ideale per un’opera di mediazione in quanto è il più piccolo tra i grandi e il più grande tra i piccoli Paesi d’Europa, è al tempo stesso «settentrionale» e «meridionale» e ha un debito molto elevato ma ha compiuto in questi mesi i passi più rapidi per uscire della crisi. Speriamo che, con queste premesse, alla fine dei dieci giorni, si abbiano decisioni e accordi veri e non un ennesimo rinvio.
La Stampa 20.06.12
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