Sono la scrittrice e conduttrice radiofonica Benedetta Tobagi e l’ex magistrato di Mani Pulite Gherardo Colombo, ora presidente della Garzanti, i candidati delle associazioni al cda della Rai. Il segretario del Pd Bersani: «Siamo orgogliosi di sostenerli». Ma slitta il voto in Vigilanza. E spunta l’ipotesi di Santoro a La7. — Ce l’hanno fatta. A dispetto dei troppi distinguo della vigilia, le associazioni cui il Pd aveva chiesto di mettersi d’accordo su due nomi per la Rai sono riuscite a farlo. Libertà e Giustizia, Libera e il comitato per la libertà di informazione hanno scelto Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi. Se non ora quando ha invece presentato una lista di nomi di donne, chiedendo che il cda sia per metà femminile. Non rema contro, però, la Tobagi era anche una sua scelta.
Come anticipato ieri da Repubblica, l’ex magistrato di Mani pulite, che ha passato gli ultimi anni a girare le scuole “spiegando” la legalità e che nel 2009 è diventato anche presidente della casa editrice Garzanti, era sostenuto dall’associazione di don Ciotti Libera. Gli altri lo hanno accolto di buon grado, rinunciando ai loro candidati per fargli posto. «Sono disponibile a fare questa nuova esperienza – ha detto ieri a Radio 24 – ho dovuto mandare anche un curriculum vitae». E poi: «Con Bersani non ho parlato, ho avuto rapporti solo con le associazioni ».
«Fino a giovedì voglio solo dire che sono molto grata e molto onorata di essere stata designata da queste realtà», dice invece Benedetta Tobagi. La figlia del giornalista del Corriere,
ucciso dai terroristi nel 1980, è una documentarista, studiosa di storia, autrice del libro “Come mi batte forte il tuo cuore”, conduttrice di un programma radiofonico su Radio tre, collaboratrice di Repubblica.
Quanto alle altre donne che Se non ora quando propone al presidente della Vigilanza Zavoli, sono Dacia Maraini, Flavia Nardelli, Evelina Christillin, Lorella Zanardo e Chiara Saraceno. Il comitato si è voluto distinguere perché il suo ruolo non fosse considerato “di parte”. Pur ringraziando Bersani, ha deciso di rilanciare. Difficile dire quanto sia realistico, visto che per gli altri 5 consiglieri (3 “spettano” al Pdl, 1 alla Lega e 1 al Terzo Polo) gli altri partiti si stanno orientando alla vecchia maniera. L’Udc vorrebbe confermare Rodolfo de Laurentiis, il Pdl Antonio Verro cui affiancherebbe il direttore comunicazione della Rai Guido Paglia e l’ex responsabile dell’ufficio legale di viale Mazzini Rubens Esposito.
E però, la Vigilanza prende tempo. L’ufficio di presidenza di oggi deciderà probabilmente di rinviare il voto da giovedì a martedì prossimo. Sono arrivati quasi 200 curricula, non si può far finta di nulla. Di certo, non ci sarà l’audizione di tutti i candidati, probabilmente neanche quella della presidente Anna Maria Tarantola (richiesta da Di Pietro), ma visto che il Tesoro ha convocato l’assemblea per le nomine del cda il 3 luglio, il Parlamento può permettersi di aspettare.
Per ora, il più soddisfatto è Bersani: «Siamo orgogliosi di sostenere personalità come Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, di cui ovviamente rispetteremo l’assoluta indipendenza», dice il
segretario pd. «Faremo di tutto perché il Parlamento raccolga l’appello all’equilibrio di genere nel Cda Rai». Non mancano i distinguo, i democratici Merlo e Fioroni accolgono la protesta delle associazioni cattoliche del forum di Todi, che ritengono indegno il metodo seguito e fanno notare che loro non indicheranno nessuno. Il produttore Giorgio Gori, ormai al fianco di Matteo Renzi, scrive su Twitter: «Sostenere con orgoglio i nomi di Colombo e Tobagi significa essere lontanissimi dal considerare la Rai una vera impresa editoriale».
Nel frattempo, il direttore generale uscente Lorenza Lei presenta i palinsesti autunnali e parla di una Rai facile bersaglio di «critiche e considerazioni superficiali e ingenerose», che «sa sempre reagire, rispondere coi fatti, coi numeri, con la qualità». Poi fa un decalogo del ruolo del servizio pubblico, mettendo il pluralismo al primo posto. Per ironia della sorte, nelle stesse ore, Michele Santoro avrebbe raggiunto un accordo definitivo per passare a La 7.
La Repubblica 19.06.12
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Per rilanciare viale Mazzini
Al di là delle modalità organizzative sulla elezione del futuro cda della Rai, un elemento è indubbio: il Partito democratico vuole il rilancio della Rai, il miglioramento della qualità nella programmazione dei suoi palinsesti e, al contempo, un progressivo e netto allontanamento della politica dalle vicende gestionali dell’azienda. Pertanto, l’accusa al Pd – che circola in alcuni settori politici e giornalistici – di voler affossare la Rai perché da tempo richiede la riforma del suo assetto di governo è ridicola e falsa. Semmai, c’è un rischio concreto che va battuto sul terreno politico e culturale, e cioè la volontà di privatizzare il servizio pubblico radiotelevisivo e quindi di liquidarlo.
Del resto, qualunque sia l’ipotesi giuridica o politica che punta a privatizzare la Rai, l’obiettivo vero che si vuole perseguire non è nient’altro che la distruzione di tutto ciò che è riconducibile alla mission del servizio pubblico. Che non è soltanto – come recita la vulgata qualunquista, demagogica e dissacrante – la tanto declamata “lottizzazione”. La ragione per continuare ad avere un servizio pubblico affonda le sue motivazioni nella certezza di conservare quel pluralismo e quell’approfondimento politico e giornalistico che sarebbero inesorabilmente sacrificati se dovesse cessare quella specificità nel panorama informativo del nostro paese.
È appena il caso di ricordare che le emittenti private che oggi si ergono a difensori di un credibile ed efficace servizio pubblico non sono nient’altro che l’espressione del proprio punto di vista. E cioè, la legittima ma discutibile partigianeria e faziosità politica. Certo, è pur vero – come disse con efficacia il presidente della commissione di vigilanza Sergio Zavoli – che a volte il pluralismo nell’attuale servizio pubblico si è progressivamente trasformato in una «sommatoria di faziosità».
Tuttavia è sempre meglio avere una sommatoria di faziosità che non la declinazione di un “pensiero unico”, seppur ammantato di modernità, di progressismo e di nuovismo. Un virus, comunque, quello della privatizzazione che è politicamente trasversale e che se non viene sapientemente respinto può travolgere tutto. E sempre, come da copione, in nome del cambiamento e del rinnovamento.
Da Fini alla Lega, da settori del Pdl ad alcuni mondi illuminati e salottieri della sinistra, per non parlare dei demagoghi alla Grillo, lo schieramento che punta alla liquidazione della Rai non è affatto debole. E qualunque cedimento su questo versante può essere fatale non solo per il futuro del servizio pubblico ma per la stessa conservazione della democrazia nel paese.
Certo, al di là delle precise responsabilità della politica, non è indifferente alla causa la classe dirigente chiamata a guidare l’azienda di viale Mazzini. Classe dirigente che, al di là delle fisiologiche polemiche che accompagnano ogni cambiamento al vertice, non può essere giudicata efficace e salvifica solo quando è composta da persone eccellenti e prestigiose ma del tutto estranee a tutto ciò che è riconducibile, seppure vagamente, a un prodotto televisivo. E questo senza affatto mettere in discussione la professionalità e il prestigio dei due dirigenti nominati dal presidente del consiglio a guidare la Rai per i prossimi tre anni.
Semmai, per dirigere la Rai è indubbiamente necessario possedere capacità manageriali ma non può essere un torto o un difetto aver maturato sul campo una specifica professionalità nel settore radiotelevisivo. Del resto, la triste e squallida stagione dei professori all’inizio degli anni ’90 aveva evidenziato come, sempre in nome della modernità, a volte si rischia di incappare in gestioni profondamente deficitarie. Comunque sia, il confronto politico attorno alla Rai ruota sì sul recupero della specificità di un efficace e credibile servizio pubblico ma anche, e soprattutto, sulla ormai indispensabile e non più prorogabile riforma della governance interna alla azienda. E il Pd, lo ripeto ancora una volta, vuole una Rai forte, competitiva, pluralista e trasparente. Ad altri il compito di privatizzarla, di indebolirla e di azzerarla. Il Pd sta sul fronte opposto.
da Europa Quotidiano 19.06.12
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“Chi vuole separare i partiti dalla società” di Francesco Cundari
La vicenda delle nomine Rai ha portato al centro dell’attenzione, sulla stampa, le «associazioni della società civile». Ma la stessa distinzione tra «società civile» e «classe politica» è piuttosto problematica dal punto di vista teorico, e ancor più complicata dal punto di vista pratico, almeno nell’Italia di oggi. Non per nulla, dopo che il Pd ha chiamato le associazioni a esprimere in sua vece due nomi per il Consiglio di amministrazione della Rai, il più tipico e rappresentativo tra gli esponenti della società civile prestati alla politica, Antonio Di Pietro, le ha invitate a «non prestarsi a questo gioco che le farebbe complici della solita spartizione partitica». Le associazioni della società civile non lo hanno ascoltato. In compenso, hanno fatto il nome di Gherardo Colombo, collega di Di Pietro nel pool di Mani pulite.
Preoccupazione mostra anche il Forum delle associazioni cattoliche, che «stigmatizza il metodo del “bando di concorso” e delle autocandidature, alcune delle quali sponsorizzate da un indefinito nucleo di associazioni, metodo che può celare logiche lottizzatorie o di natura ideologica». Un avvertimento subito raccolto da diversi esponenti del Partito democratico, da Giuseppe Fioroni a Giorgio Merlo.
Inoltre, sin dalle prime ipotesi circolate nei giorni scorsi sui candidati delle associazioni, altri autorevoli esponenti della società civile avevano manifestato qualche legittima perplessità sulla scarsa competenza in materia televisiva dei nomi fin lì ipotizzati. Altri, infine, avevano chiesto delucidazioni su quale idea di servizio pubblico e quali scelte concrete avrebbero avallato o contrastato sul futuro della Rai. Si vedrà nelle prossime ore se i nomi di Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo diraderanno ogni perplessità.
Le discussioni di questi giorni testimoniano comunque la difficoltà di tracciare un confine così netto tra «società civile» e «classe politica»; tra l’ex pm Di Pietro, oggi affermato leader di partito, e il suo ex vicino di scrivania Colombo. Non perché, come ha scritto Repubblica, la società civile sia improvvisamente diventata «dorotea». Ma perché i partiti stessi, con le loro divisioni e le loro correnti, frutto della naturale dialettica tra dirigenti e diretti, sono espressione della società. Del resto, se così non fosse, che senso avrebbe la stessa democrazia rappresentativa?
l’Unità 19.06.12