Ho saputo che mi era stato conferito il Premio Nobel per la Pace ascoltandola radio una sera. Avevo già saputo da altre trasmissioni nella settimana precedente di essere una dei finalisti. Ho fatto uno sforzo per ricordare quale sia stata la mia immediata reazione alla notizia. Credo, anche se non ne sono più sicura, di aver pensato qualcosa come: «Ah, hanno deciso di darlo a me». Il tutto non sembrava molto reale, perché, in un certo senso, neanch’io mi sentivo molto reale in quel momento.
Ho provato spesso, durante il periodo che ho trascorso agli arresti domiciliari, la sensazione di non fare più parte del mondo reale. C’era una casa che era il mio mondo, c’era il mondo di chi non era libero ma stava insieme con altri in una prigione formando una comunità, e infine c’era il mondo dei liberi: tutti pianeti differenti che seguivano ciascuno una propria orbita in un universo indifferente. Ciò che ha fatto il Premio Nobel è riportarmi nel mondo degli altri esseri umani, fuori da quell’area isolata nella quale ho vissuto, di ridarmi in qualche modo il senso della realtà. Mi ha reso reale ancora una volta; mi ha riportato nella comunità degli esseri umani. E cosa ancora più importante, il Premio Nobel ha riportato all’attenzione del mondo la lotta per la democrazia e per i diritti umani in Birmania. Non saremo stati scordati.
Essere scordati. Essere scordati è come morire in parte. Vuol dire perdere alcuni dei vincoli che ci tengono ancorati al resto dell’umanità. I lavoratori migranti e i rifugiati birmani che ho incontrato nella mia recente visita in Tailandia mi hanno detto con forza «Non ci dimenticare! », intendendo «Non scordare che anche noi apparteniamo al tuo mondo». Decidendo di conferirmi il Premio Nobel per la Pace, il Comitato ha ribadito che gli uomini oppressi e isolati della Birmania sono anch’essi parte del mondo e ha riaffermato che l’umanità è una sola. In varie parti del mondo imperversano i conflitti e la sofferenza. Nel mio paese, nell’estremo Nord, le ostilità non sono ancora cessate; a Ovest, i conflitti locali sono sfociati in incendi e assassinii solo qualche giorno prima dell’inizio del viaggio che mi ha portato qui. Le notizie su atrocità in altre parti del mondo abbondano. E ogni giorno veniamo a conoscenza di rapporti che riferiscono di fame, di malattie, di trasferimenti forzati, di disoccupazione, di povertà, di ingiustizia, di discriminazione, di pregiudizi, di intolleranza. Dovunque la sofferenza è ignorata, si semina il conflitto, perché la sofferenza implica umiliazione, avvilimento e rabbia.
Quante volte durante i miei anni agli arresti domiciliari ho tratto forza dal mio passaggio preferito del preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “… Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo… è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la
tirannia e l’oppressione…”.
Quando mi si chiede perché lotto per i diritti umani in Birmania, la risposta sta nel passaggio appena citato. Quando mi si chiede perché lotto per la democrazia in Birmania, la risposta sta nella mia convinzione che le istituzioni e la pratica della democrazia siano necessarie per garantire i diritti umani.
Nel corso dell’ultimo anno sono emersi dei segnali che indicano che le fatiche di chi crede nella democrazia e nei diritti umani stiano cominciando a produrre dei frutti in Birmania.
Sono stati intrapresi dei passi verso la democratizzazione. Se io mi pronuncio per un cauto ottimismo non è perché non ho fede nel futuro, ma perché non voglio incoraggiare una fede cieca. Senza fede nel futuro, senza la convinzione che i valori democratici e i diritti fondamentali dell’uomo non sono soltanto necessari ma anche fattibili nella nostra società, il nostro movimento non sarebbe resistito lungo tutti quegli anni devastanti. La loro fede nella nostra causa non è cieca ma poggia su una lucida valutazione della propria capacità di resistere.
La mia presenza qui oggi tra di voi è il risultato dei recenti cambiamenti verificatisi nel mio Paese, e questi cambiamenti hanno avuto luogo perché voi e altri amanti della libertà e della giustizia avete contribuito a costruire nel mondo una consapevolezza sulla nostra situazione. Prima di continuare a parlare del mio Paese, vorrei dire qualche parola a nome dei prigionieri di coscienza. In Birmania ci sono ancora questo tipo di prigionieri. Il timore è che ora, dopo il rilascio dei detenuti più noti, quelli che rimangono, gli sconosciuti, siano dimenticati. Per favore ricordateli e fate quanto possibile per ottenere il loro tempestivo e incondizionato rilascio.
La Lega nazionale per la democrazia ed io siamo pronti e fermamente intenzionati a svolgere qualunque ruolo richieda il processo di riconciliazione nazionale. Le misure di riforma avviate dal governo del presidente U Thein Sein possono essere salvaguardate solo con la cooperazione intelligente di tutte le forze interne. Si può dire che le riforme saranno efficaci soltanto se migliorerà la vita delle persone e, in questo senso, la comunità internazionale può svolgere un ruolo vitale.
La pace nel nostro mondo è indivisibile. Fintanto che le forze negative avranno la meglio su quelle positive in una qualsiasi parte del mondo, siamo tutti a rischio. Si potrebbe obiettare che le forze negative non potranno mai essere sconfitte tutte e del tutto. La risposta è semplice:
«No!». Tuttavia, fa parte delle capacità dell’uomo adoperarsi per rafforzare ciò che è positivo e per minimizzare e neutralizzare ciò che è negativo. Anche se non conseguiremo nel mondo la pace perfetta, gli sforzi comuni per raggiungerla uniranno le persone e le Nazioni nella fiducia e nell’amicizia e contribuiranno a rendere la comunità degli uomini più sicura e gentile.
Uso la parola «gentile» dopo un’attenta ponderazione; potrei dire dopo un’attenta ponderazione durata molti anni. Tra gli aspetti positivi dell’avversità, trovo che il più prezioso sia costituito dalle lezioni che ho imparato sul valore della bontà d’animo. Essere gentili vuol dire dare risposte cariche di sensibilità e di calore umano alle speranze e ai bisogni degli altri. Persino la più sfuggente manifestazione di bontà d’animo può alleggerire la pesantezza di un cuore. La gentilezza può cambiare la vita delle persone. In ultima istanza, il nostro obiettivo dovrebbe essere creare un mondo dove non ci siano persone senza terra, senza un tetto e senza speranza. Ogni singolo pensiero, parola e azione che contribuisca a ciò che è positivo e un tutt’uno è un contributo alla pace. Ciascuno di noi è capace di offrire un tale contributo.
Unendomi al movimento per la democrazia in Birmania, non mi passò mai per la mente che sarei potuta essere insignita di un premio o di una onorificenza. Il premio per il quale lavoravamo era una società libera, sicura e giusta. L’onore risiedeva nel nostro sforzo. La storia ci ha dato l’opportunità di dare il meglio di noi per una causa nella quale crediamo. Scegliendo di onorarmi, il Comitato per il Nobel ha reso la strada da me liberamente scelta meno solitaria. Di ciò sono grata al Comitato, al popolo della Norvegia e ai popoli di tutto il mondo, il cui sostegno ha rafforzato la mia fede in un comune perseguimento della pace. Grazie.
La Repubblica 17.06.12
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UNA ESILE SIGNORA”, di ADRIANO SOFRI
ERA difficile immaginare un altro premiato col Nobel per la pace che mettesse al centro del suo discorso il valore della gentilezza. AUNG San Suu Kyi sembra incarnarlo. Giugno è il mese più felice per la Norvegia, ma ha riservato una mattina di pioggia a lei e alla sua gente entusiasta, che non se ne è data per intesa e l’ha inseguita dappertutto, al “Grand”, l’hotel storico di Christiania, alla reggia, alla sede del Nobel: del resto Rangoon tiene il primo posto per la piovosità. La comunità birmana ha tremila persone in Norvegia, e centinaia sono arrivate da Danimarca, Svezia, Germania. Nel pomeriggio, quando la festa è passata al lungomare, il sole è venuto fuori grandiosamente al momento del suo affabile saluto a molte migliaia di persone — e le ha permesso di scherzare sul detto burmese a proposito del sole che torna dopo un lungo e allarmante buio: «Voi norvegesi potete capirmi ».
Chiamano anche lei “Lady di ferro”, per farle un complimento. Ma le persone non sono di ferro: lei è un’esile bellissima signora di 67 anni, che ha avuto 21 anni per mettere a punto il suo discorso di accettazione del Nobel per la pace. Ieri l’ha tenuto, nel Paese che l’ha aspettata per tutto questo tempo. Un po’ una favola: lei è la principessa coi fiori nei capelli, figlia dell’uomo buono che si batté per l’indipendenza del suo Paese e fu ucciso, e i cattivi le hanno tolto il posto che le spettava e l’hanno chiusa in una prigione e avrebbero buttato via la chiave se il mondo non si fosse commosso, e alla fine hanno dovuto liberarla, e tutto ricomincia da dove era stato interrotto, nel solenne municipio di Oslo. Il Nobel per la pace, l’unico riservato alla Norvegia, resta importante per le favole contemporanee, e anche Aung San Suu Kyi gli deve molto: e viceversa, perché il rischio del Nobel, che premia i viventi e spesso quando sono ancora giovani, è che i premiati non siano poi all’altezza del diploma, ciò che succede soprattutto quando vengono scelti dei potenti, nell’illusione che usino bene del loro potere. “Zia Suu” non è venuta meno per un momento alle aspettative della sua gente e all’idea di sé che si era fissata, e ha onorato il riconoscimento del mondo. Ieri il presidente del Comitato, Thorbjoern Jagland, l’ha rivendicato: «L’intervallo di 21 anni ha provato che avevamo avuto ragione». A un prezzo per lei carissimo, perché nelle favole la principessa non invecchia, i suoi cari non muoiono e non si perdono
nel rimpianto, il suo regno torna felice. Grazie ai tanti racconti e ora al film di Besson, il versante privato della vicenda di Suu ha preso un grande spazio, e spinto a interrogarsi su quanto si possa sacrificare di sé e dei propri a una missione pubblica. (Ne ha riferito qui, sobriamente ma drammaticamente, Enrico Franceschini domenica scorsa). Le ovazioni che accompagnano questo suo ritorno europeo non possono compensarla. «Molti anni fa, anzi molte vite fa…», ha detto. Ogni volta che qualcosa avviene tardi ci si chiede se non sia troppo tardi. Agli occhi dei commentatori realisti, Suu è uscita dalla persecuzione in un modo così ordinario da minacciarne l’aura di eroismo intransigente e riportarla alla politica prosaica. E in questi giorni la Birmania conosce una recrudescenza di tragedie irrisolte, come la violenta intolleranza reciproca di buddisti e musulmani nel Rakhine: ne trovate un’aggiornata illustrazione nel blog di Raimondo Bultrini per Repubblica.
Le autorità del Bangladesh, che contiene centinaia di migliaia di profughi in condizioni tremende, come quelle tailandesi, hanno respinto i Rohingya che vi cercavano riparo (con l’eccezione di un’altra minuscola favola, una bambina di un mese e mezzo, sola alla deriva in una barca).
L’antico problema delle minoranze, il 40 per cento della popolazione e un numero enorme di profughi nelle regioni periferiche, sarà probabilmente il peculiare banco di prova della nuova condizione di Suu. Perfino fra gli squisiti birmani norvegesi in festa con cui parlo a Oslo è difficile trovare qualcuno che non chiami “stranieri” i Rohingya. Lei dice: «Spegnere i fuochi, su cui altri soffiano». Ha adattato il proprio tono. Alla conferenza stampa col premier Stoltenberg le hanno chiesto se i capi militari della Birmania fossero irritati per il suo viaggio e le accoglienze: «Non vedo perché qualcuno debba obiettare al fatto che vado all’estero». Non lo vedeva nemmeno prima, naturalmente. Ha detto anche — infatti è discreta, ma non formale: «Se solo immaginassero come sono nervosa, sarebbero dispiaciuti per me, altro che irritati ». Ma non è vero che nella sua nuova situazione “norma-lizzata” Aung San Suu Kyi debba semplicemente smettere il tono alto dei suoi appelli alla libertà e alla dignità, prenderne infine commiato dopo la cerimonia postdatata del Nobel. Nella quale ha parlato anche in un toccante e spiritoso tono famigliare: come del Nobel per la letteratura che, allora sconosciuta, promise a suo figlio bambino di conquistare per partecipare a qualche isola dei famosi, e non aveva nessuna intenzione letteraria. «Vivere in isolamento mi ha dato molto tempo per rimuginare sul significato delle parole e
dei precetti cui mi ispiravo», ha detto introducendo la sua essenziale lezione di buddismo. «Pensavo ai prigionieri e ai rifugiati, ai lavoratori migranti e alle vittime di traffici di umani, alla moltitudine di sradicati della terra che sono stati tolti alle loro case, separati da famiglia e amici, costretti a vivere fra estranei non sempre benevoli». Poi ha voluto dedicare la conclusione del suo discorso alla gentilezza. Basta la gentilezza, ha detto, a toccare anche il più duro dei cuori; e ha lodato la gentilezza norvegese — non ha detto la solidarietà, o la compassione — nel dare un posto agli spostati della terra. Ha ragione, perché la Norvegia è un paese gentile.
La sua esperienza ha molto da insegnare anche alla nostra parte della terra, che finora si aggiudicava con naturalezza l’aggettivo di “ricca”, e adesso vacilla. Il norvegese Fridtjof Nansen fu, all’indomani della Prima Guerra, l’ammirevole inventore del passaporto umanitario per moltitudini di profughi e perseguitati. Suu Kyi sa che libertà e dignità si misurano soprattutto con un passaporto nella propria tasca. Il suo ce l’ha di nuovo da poco. Le avrebbero concesso di partire e tornare dal suo uomo, dai suoi figli, purché non tornasse più. Questa volta è arrivata con un documento di andata e ritorno. Oggi più che mai, un essere umano è assicurato o negato da un passaporto, che si tratti di una principessa della favola o di un clandestino senza polpastrelli. E il posto finalmente occupato ieri da Suu è ancora vuoto per Liu Xiaobo. Per poco, si è augurato Jagland: «Anche i potenti hanno paura». Chi diffida della correttezza politica degli accademici norvegesi rilegga il discorso con cui motivarono la scelta che il governo cinese prese per una sfida: «Ci dispiace che il premiato non sia qui. È in carcere, isolato, in Cina. Neanche sua moglie e i suoi parenti più stretti sono potuti venire. Questo basta a dire che il premio era necessario e appropriato. Quando, nel 1935, il Comitato premiò Carl von Ossietzky, Hitler si infuriò. Ossietzky non venne a Oslo, e morì di lì a poco. Ci fu grande indignazione a Mosca quando fu premiato Andrej Sacharov, e lo stesso avvenne con Lech Walesa. E le autorità birmane si infuriarono a loro volta quando fu premiata Aung San Suu Kyi nel 1991… Era importante per il Comitato ricordare al mondo che i diritti largamente goduti oggi vennero conquistati a caro prezzo da gente che corse grandi rischi. Jagland ha ripetuto con orgoglio quell’elenco ieri, quando Aung San Suu Kyi è arrivata all’appuntamento. Liu Xiaobo ancora no, e con lui innumerevoli altri che corrono terribili rischi e non hanno un nome. «Pechino, ci senti?», ha gridato dalla piazza il presidente di Amnesty norvegese.
La Repubblica 17.06.12