L’Italia del lavoro, che i sindacati hanno portato ieri in piazza, chiede una svolta nelle politiche economiche. Una svolta che rimetta al centro l’occupazione e l’equità sociale, che rilanci la manifattura italiana dopo anni di colpevole disimpegno nelle politiche industriali, che sostenga finalmente la crescita abbandonando quelle ricette restrittive che stanno distruggendo l’Europa.
È il momento della verità per il nostro Paese e per le democrazie del vecchio Continente. È innanzitutto il momento di dire la verità ai cittadini. Perché di troppa demagogia, di troppo conformismo, di troppi opportunismi stiamo soffocando. Se la politica democratica, in tempi rapidi, non sarà capace di cambiare direzione di marcia, rischieremo di disperdere il patrimonio costruito dai nostri padri e di lasciare macerie ai nostri figli. È in gioco la nostra civiltà, non solo una quota di benessere. E questa transizione è terreno di battaglia, non è semplicemente una tregua politica.
Oggi si vota ancora in Francia e in Grecia. Una parte del destino europeo, quindi anche del nostro, è affidato a quelle urne. Ma, se siamo arrivati a un punto così critico, non è colpa del destino cinico e baro, bensì di chi ha guidato l’Europa nell’ultimo decennio curando la grave crisi finanziaria con medicine sbagliate (anzi, aggravando gli squilibri tra i Paesi). Ora la vittoria di Hollande ha infranto l’ortodossia liberista. Ci auguriamo che le elezioni legislative daranno stasera al presidente socialista quella maggioranza necessaria a rafforzare la sua politica. E speriamo che i progressisti europei, a partire dal cruciale vertice di fine giugno, siano in grado di proporre insieme un programma di cambiamento, centrato sul rafforzamento dell’integrazione (è ora di dirlo con nettezza: se non si scommette sull’unità europea – eurobond, governance comunitaria, politiche convergenti – non ci salveremo dalla speculazione, né avremo un nuovo sviluppo).
Il governo Monti deve fare la sua parte per correggere la rotta. In Europa. Ma anche nel nostro Paese. Non esistono soluzioni tecniche, nel senso di «neutrali». Anche questa verità va ribadita a scanso di equivoci. Quando Monti ha cominciato ad operare, l’estrema esiguità dei margini di scelta derivava dalla pesante eredità berlusconiana e dalla ferrea dottrina imposta dalla Bce e dai governi del centrodestra europeo. Non è mai stata «tecnica», e dunque insindacabile, la sua politica, tuttavia era stretto il percorso per un recupero di credibilità dell’Italia.
Ora qualcosa è cambiato. La partita è più aperta di ieri. Più aperta, anche se forse ancora più drammatica. Il baratro è sempre a un passo. E sarebbe meglio evitare di dire, come ha fatto ieri il premier, che il cratere si è allargato: troppo facile dare la colpa al cratere, il problema è che l’Europa non è stata ancora capace di una risposta adeguata. Benché una istituzione come il Parlamento europeo abbia indicato al Consiglio dei primi ministri soluzioni (come la golden rule, come la tassa sulle transazioni finanziarie, come gli eurobond nella versione proposta da Vincenzo Visco) che potrebbero contrastare efficacemente la speculazione finanziaria, e dunque ridare respiro alle politiche economiche.
Non c’è oggi altra ragione di continuità per il governo tecnico che rimettere l’Italia su un binario di crescita. Il che vuol dire collaborare attivamente con chi in Europa sta cercando di cambiare l’agenda e con chi a Washington sta spingendo per politiche di rilancio della domanda (sarebbe una catastrofe se l’Europa giocasse nei fatti a favore di una rivincita conservatrice negli Usa). Ma, accanto a questo, è necessario che il governo batta un colpo anche nelle politiche interne. Il decreto per lo sviluppo, varato venerdì, è un primo segnale. Un segnale, tuttavia, largamente insufficiente. I numeri del ministro Passera (80 miliardi «messi in movimento») appaiono più auspici che realtà. Ma, visto che il traguardo è stato indicato, si incalzi il governo affinché realizzi questi propositi. E il Parlamento rafforzi le misure in modo che i vuoti vengano colmati.
Abbiamo bisogno di risorse destinate allo sviluppo. E di selezionare gli obiettivi del Paese, in modo che i pochi denari non si disperdano a pioggia, ma rafforzino i segmenti capaci di produrre più rapidamente qualità, innovazione, lavoro. Monti continua a chiedere rigore. La spesa corrente non è una variabile indipendente: anche questa è verità. Saremo chiamati ad altri sacrifici. Lo sappiamo. Ma ciò che non possiamo accettare sono la palese ingiustizia sociale e la rinuncia a costruire il futuro. Se si continua nella spirale tagli-austerità-depressione l’esito per l’Italia sarà quello greco. Nessuna giustificazione «tecnica» è valida per il declino.
Ma c’è di più: sempre ieri il premier ha annunciato che la riforma del mercato del lavoro va approvata prima del vertice europeo di fine giugno. È un altro pegno, un altro compito a casa da svolgere con diligenza. La riforma è stata migliorata in Senato rispetto all’impianto iniziale, che cancellava di fatto le garanzie dell’articolo 18, anche se restano deficit molto gravi in tema di ammortizzatori sociali: per i cocopro la copertura è quasi inesistente e i propositi di lotta alla precarietà sono di fatto vanificati. Se non si troveranno ora le risorse necessarie, la battaglia riprenderà dal giorno dopo il varo del provvedimento.
Un punto però è discriminante. Prima di formulare qualunque richiesta in Parlamento, il governo risolva lo scandalo degli esodati. Il balletto di cifre è stato vergognoso. La «dimenticanza» del ministro Fornero inaccettabile. Altro che governo tecnico: non c’è governo politico al mondo che consentirebbe a un suo ministro simili contorcimenti. Stiamo parlando della vita di migliaia e migliaia di persone, mica di argomenti da salotto. Il governo assicuri subito agli esodati (tutti, non i 65mila scontati da Fornero) una soluzione civile e rispettosa: altrimenti sarà una provocazione ipotizzare il varo della riforma del mercato del lavoro.
Per completare la legislatura bisogna fare cose utili al Paese. Tra queste la riforma elettorale e la legge anticorruzione. Se il Pdl le boicottasse darebbe un colpo mortale allo stesso governo. Non avrebbe senso andare avanti senza concreti obiettivi riformatori. Il traguardo della transizione è infatti restituire agli italiani la possibilità di scegliere tra alternative politiche. Il governo tecnico è uno strumento, non certo la soluzione. Dobbiamo fare in modo che sia utile, innanzitutto a chi negli ultimi anni ha pagato il prezzo più caro del declino del Paese.
l’Unità 17.06.12
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