Nelle accese polemiche scoppiate dopo le (talune) infelici nominealle Autority, è tornata a risuonare con ritrovato vigore una antica litania contro la partitocrazia. C’è sicuramente qualcosa di stucchevole in un folto professionismo dell’antipartitocrazia che galoppa intrepido in una età di partiti assenti o precipitati in gravi dilemmi esistenziali. E tuttavia, dopo aver eliminato la fastidiosa coltre ideologica, ravvisabile nel lamento di chi maltratta i partiti come escrescenze e si promuove come il solo interprete autorizzato della società civile, resta comunque irrisolto il nodo del raccordo tra la funzione delle rappresentanze e le sfere dell’agire sociale.
È almeno da vent’anni che opera una secca contrapposizione tra la società civile e quella politica. La seconda Repubblica in origine è nata proprio in nome della società civile liberata che rifiutava la politica percepita come contaminata dal malaffare e conquistava le postazioni del potere senza più l’esigenza di ricorrere ai soggetti della mediazione. La rude società delle partite Iva, della microimpresa disseminata nei territori si incamminò con successo lungo la strada della autorappresentazione. E, per tutto l’arco del ventennio, ha retto la solida alleanza tra azienda e territorio padano visti come i soggetti di una autorappresentazione ostile al ceto politico.
Questa porzione potente di società spezzava la logica della mediazione politica e conquistava tutto per sé lo spazio pubblico di decisione, imponeva una sfacciata contaminazione di affari e potere. Contro una infinita serie di conflitti di interesse, sorgevano nel Paese delle sensibilità civiche attorno ai temi della legalità, della indipendenza della magistratura sfidata da leggi ad personam, della pulizia etica da imporre nell’amministrazione colonizzata ad ogni livello da cricche opache. Accanto ad una società civile arroccata al comando, sorgeva così una società civile di opposizione che assumeva nella sua agenda le richieste tipiche della cultura liberaldemocratica: separazione dei poteri, certezza del diritto, autonomia dell’amministrazione, riconoscimento del merito, nuovi diritti civili.
Fino a quando questa influente porzione (liberale) di società civile ha mantenuto ben salda la sua funzione di pungolo critico, da esercitare contro i ritardi della politica, e ha fatto ricorso a mobilitazioni intense senza però lasciarsi tentare dalle scorciatoie dell’autorappresentazione, ha intrattenuto con la sinistra un proficuo dialogo. Da ultimo, le vittorie alle amministrative in città simbolo come Milano, il trionfo nei referendum sull’acqua e sul nucleare, racchiudono proprio il concorso di autonome sensibilità civiche e la regia accorta e discreta dei partiti. Questo sentiero di cooperazione produttiva si è però interrotto, con una grave ricaduta sulle prospettive del rinnovamento della politica.
All’origine della frattura c’è il difficile tragitto avviato con il governo di tregua che avrebbe dovuto favorire la ripresa della politica e invece ha accentuato nelle élite economiche e mediatiche i disegni di scomposizione del sistema. La momentanea sospensione della aperta polarità destra-sinistra in nome dell’emergenza, ha moltiplicato le spinte all’autorappresentazione che rendono assai precaria la tenuta dei partiti e la sorte del parlamentarismo. Un populismo dei ceti medi riflessivi alimenta la proliferazione di liste e partiti personali, e minaccia la prospettiva di una riorganizzazione efficace della rappresentanza politica.
La sinistra, con le opportune aperture alle istanze liberali (diritti, partecipazione civica), tenta ora di recuperare un cantiere abbandonato in maniera traumatica. Soprattutto in tempi di crisi sociale, la sinistra dovrebbe però conservare la consapevolezza che la società civile (della rete, dell’attivismo civico informato, delle professioni) è solo una parte (preziosa, certo) di una più ampia società che avverte un profondo disagio e potrebbe presto convertire la sua perdita di status in sostegno a forme inquietanti di alienazione politica. Mentre lancia dei segnali di recuperata attenzione alla società civile riflessiva, la sinistra non dovrebbe trascurare di essere un partito-società che, se non dà un senso alle incertezze che si abbattono sulle sue fasce di popolo, favorisce proprio tra i ceti marginali le uscite di tipo regressivo alla crisi di legittimazione ormai in corso.
l’Unità 15.06.12