Accordi precipitosi tradiscono la mancanza di regia generale, inducono a continui riaggiustamenti. L’intervento in aiuto di Bankia sembra possedere tutte queste caratteristiche. L’incertezza soprattutto: l’ammontare dell’aiuto dipenderà da una revisione dei bilanci in corso, diverse condizioni del prestito non sono note (ad esempio la più importante di tutte: è privilegiato?), non è chiaro in che forma avverrà la ricapitalizzazione della banca, quale sarà la sua governance, come ne usciranno gli amministratori, gli azionisti, i creditori. Insomma, un pasticcio che sarà probabilmente rivisto e ricontrattato ad ogni curva e che per questo potrebbe addirittura facilitare invece che frenare il contagio.
In questo contesto è ragionevole che l’attività del nostro governo si concentri nel tentativo di rassicurare i mercati nel brevissimo periodo. È bene però che sia chiaro che difendere il sistema bancario a pie’ di lista come sembra sia avvenuto in Spagna e come probabilmente avverrà in Italia in caso di contagio non aiuta ad uscire dalla crisi. Al contrario, induce le banche a disinteressarsi della propria ragione di esistere, concedere credito all’attività
economica imprenditoriale, pur di guadagnare supporto pubblico a garanzia di amministratori ed azionisti. Quanto dell’austerità che attanaglia il sud Europa è dovuta proprio al congelamento del credito?
L’acutezza della crisi di questi giorni è dovuta però anche alla carenza di discussione sulle prospettive d’uscita strutturali, di medio periodo. Per amor di discussione, supponiamo allora che la crisi si risolva domani per intervento di un deus ex machina, che le ansie degli investitori internazionali si sciolgano al sole per incanto e/o che i cittadini tedeschi si sveglino domattina pieni di masochistico desiderio di aiutare il sud Europa emettendo e comprando Eurobond. Cosa sarebbe di noi in questo futuro radioso? Come procederebbe l’economia italiana se potesse tornare a spread quasi nulli? Mi concentro sull’Italia, anche se
molto di quanto segue si applica a Grecia, Spagna, Portogallo e anche alla Francia. Supponiamo anche, ipotesi azzardata, che la subitanea uscita dalla crisi non induca politici, sindacati, Confindustria, e chissà chi altro, ad un attacco alla diligenza, vanificando ogni teutonica generosità.
Anche in questo futuro radioso il paese si troverebbe comunque a dover ridurre tendenzialmente il rapporto
debito/Pil per poter evitare una nuova crisi in pochi anni. Questo significa convincere gli investitori che il paese si è imposto di mantenere un avanzo primario diciamo del 3-4% ed un tasso di crescita del Pil tra l’1 e il 2% (questi sono “conti della serva”, per dare un’idea dell’ordine di grandezza; conti più precisi sono possibili solo con ipotesi esplicite, ad esempio riguardo alla futura struttura dei rendimenti). Non sarebbe uno scherzo: significa mantenere quella che oggi ci appare come una insopportabile austerità fiscale per molti anni ancora (30 anni o giù di lì). E significa anche, in questa situazione di austerità, crescere ad un ritmo più elevato di quello a cui siamo stati capaci di farlo negli ultimi 15 anni, prima della crisi e con un stato prodigo di aiuti pubblici. Sottolineo prima della crisi; perché la crisi non ha nulla a che fare con la questione
crescita, che invece dipende dalla produttività, stagnante per anni e anni. Sottolineo anche che non basta che l’economia del paese si metta in questa traiettoria, è necessario che gli investitori siano convinti che il paese sia persuaso che questa traiettoria sia da mantenere, che non ne voglia uscire alla prima occasione.
Pensiamo davvero che per fare tutto questo basti un cedimento della cancelliera Merkel al presidente Hollande sulle “misure di crescita” del fiscal compact? Pensiamo davvero che una fiscal review dell’ordine di 5-6 miliardi di Euro non appaia per quello che è: una drammatica dichiarazione di fallimento? La testa nella sabbia non aiuta a programmare il futuro ma nemmeno a fermare il contagio: per fare questi conti non ci vuole un dottorato in economia né un modello economico sofisticato di quelli in uso alle banche centrali, basta una minima padronanza dell’aritmetica e una calcolatrice da
pochi euro.
Per rimettere l’economia del paese in ordine è necessario smettere di guardare al breve periodo, piangersi addosso per la recessione o l’austerità, e lavorare invece a importanti riforme istituzionali. Perché un solido avanzo primario sia sostenibile nel tempo è necessaria una modifica fondamentale
dei meccanismi istituzionali della spesa pubblica, altrimenti fuori controllo. È necessario anche intervenire sulla composizione delle entrate, per renderle meno distorsive e più difficili da evadere. Nessuno ne parla più, ma tutto questo non si può fare, nel nostro paese, senza un sano federalismo fiscale (quello contenuto nella Legge 42, ex Bozza Calderoli, è debole in vari aspetti; e comunque mancano ancora
vari decreti attuativi fondamentali della legge delega, per non parlare dei vari interventi governativi recenti che ne hanno snaturato l’impianto).
Un maggior controllo della spesa permetterebbe di ridurre l’imposizione fiscale a famiglie e imprese in maniera sostanziale, senza la quale non c’è alcuna possibilità di crescita. Ma per crescere sono necessarie anche una riforma del mercato del lavoro e di quello del credito, che eliminino il dualismo del primo e l’inefficienza e la scarsa competitività del secondo, per non parlare di una razionalizzazione di vari servizi pubblici, dalla sanità alla scuola e alla giustizia.
La buona notizia è che più si cresce, meno austerità fiscale è necessaria. Ma per quanto potremo continuare a credere che tra noi e la crescita vi sia solo l’austerità o, ancor peggio, l’ostinatezza della Cancelliera?
La Repubblica 14.06.12