Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva ragione a dire, lo scorso novembre, al momento dell’insediamento del nuovo governo Monti, che era tempo di dire e guardare in faccia la verità. Purtroppo poche persone sembrano averlo ascoltato. Anche tra i governi leader della zona euro, dove è ancora più necessario affrontare la verità. La necessità di affrontare la verità sull’Eurozona è la più urgente, in Italia se si continua a non riconoscere la verità, il fallimento potrebbe rivelarsi ancora più tragico.
La verità sull’Eurozona comincia con la situazione attuale. Ovvero che fin dall’inizio della crisi del debito sovrano, circa due anni fa, le politiche condotte da Germania e Francia e seguite dal resto della zona hanno rappresentato dei tentativi di rinviare il problema, per guadagnare tempo. La speranza era che nel tempo così guadagnato il piccolo Paese problematico, la Grecia, sarebbe riuscito a stabilizzare le sue finanze pubbliche, e anche i grandi Paesi problematici, Italia e Spagna, avrebbero messo sotto controllo i loro debiti riuscendo anche a riformare il loro mercato del lavoro e a stimolare la competitività.
Questa politica è servita a guadagnare tempo, ma quel tempo ormai è esaurito, per cui la politica è diventata controproducente. I Paesi dell’Europa meridionale sono intrappolati in una spirale economica discendente, una spirale di morte: i tagli di bilancio fanno rallentare le loro economie, un processo che scoraggia le imprese dal prestare o investire soldi, indebolendole ulteriormente. Il risultato in Spagna e in Italia è che due Paesi europei che nel 2008-10 potevano vantare la buona organizzazione e la solidità dei loro sistemi bancari ora hanno banche deboli e fragili. Il mercato immobiliare spagnolo continua a generare debiti sempre più alti mentre l’economia declina, che è poi il motivo che ha costretto il governo spagnolo a chiedere fondi internazionali per ricapitalizzare le banche. Quelle italiane detengono troppi titoli di Stato nazionali sul cui valore i mercati ora s’interrogano, e i loro clienti sono sempre più deboli.
La disciplina fiscale, secondo le regole del Trattato di bilancio inter-governativo lanciato lo scorso dicembre, è la grande idea dell’Eurozona per affrontare questi problemi. Alcuni la definiscono «un’unione fiscale». Ma la verità è che non si tratta affatto di un’unione fiscale, che richiederebbe un ministero delle Finanze comunitario che da Bruxelles imposti una politica che rifletta le situazioni economiche nei 17 Stati dell’Eurozona. Al contrario, il Trattato stabilisce solo un insieme condiviso di regole fiscali, da applicare quasi a prescindere dalla situazione economica di ogni Paese.
È possibile che si possa guadagnare ancora un po’ di tempo: forse grazie agli elettori greci che potrebbero anche non scegliere un governo anti-austerità, ma piuttosto uno che sostenga ancora il corso attuale; e forse, anche già questo fine settimana, grazie a un accordo a sostegno delle banche spagnole, che eliminerebbe uno dei più grandi timori su ciò che potrebbe accadere se i greci votassero per il partito di estrema sinistra Syriza e finissero per non onorare i loro debiti. La Spagna, almeno, non collasserebbe.
Ma la spirale discendente continuerebbe. Perché non si è fatto nulla per fermarla? Non è perché i politici tedeschi o francesi o gli altri non capiscano la situazione. È perché non sono ancora riusciti ad affrontare la verità sull’euro.
Il fatto è che nel 1999 la moneta unica è nata all’insegna della solidarietà, ma in una realtà di responsabilità nazionali separate. La pretesa della solidarietà ha fatto sì che le regole macro-economiche che erano state stabilite nel Trattato di Maastricht del 1992 fossero immediatamente distrutte, dal momento che avrebbero dovuto impedire nel 1999 l’adesione dell’Italia e nel 2001 quella della Grecia. La realtà della responsabilità nazionale – ciascuno deve fare i conti con i propri debiti e il proprio sistema bancario – ha fatto sì che la solidarietà fosse una finzione.
La verità superficiale su questo punto è che i tedeschi vogliono che la responsabilità resti nazionale, così come gli olandesi e alcuni altri, e che i francesi vogliono una solidarietà più vera. Una cosa sorprendente dei mercati dell’Eurozona nel corso dei due anni di crisi – il fatto che non siano mai stati veramente boicottati dagli investitori preoccupati – si spiega con il fatto che abbastanza investitori sembrano aver creduto che, alla fine, la Germania avrebbe ceduto e accettato la solidarietà.
Può essere. Ma stiamo esaurendo il tempo per scoprirlo. E intanto il problema potrebbe essere che il gusto per la solidarietà in Francia e in altri Paesi della zona euro, tra cui probabilmente l’Italia, è in declino. In molti Paesi la politica nazionale si sta rivoltando contro l’euro e le sue regole di austerità. Uno scenario da incubo potrebbe essere quello in cui i tedeschi finalmente accettano la solidarietà, proprio quando gli altri grandi Paesi sono costretti nella direzione opposta dalla rabbia dei loro elettori.
Nel breve termine, una soluzione basata su una qualche forma di solidarietà appare inevitabile: un salvataggio internazionale per le banche spagnole: idealmente qualche stimolo fiscale nei ricchi Paesi del Nord Europa, una forma limitata di obbligazioni garantite collettivamente, dedicate o agli investimenti nelle infrastrutture o al ripianamento della fetta maggiore del debito irlandese, portoghese e spagnolo, per esempio. Eppure, è importante ascoltare con attenzione la cancelliera Angela Mer-kel. Lei dice che l’Europa deve avere una maggiore integrazione politica ed economica. Ciò suggerisce chi vede i controlli collettivi, una cessione di sovranità, come pre-condizione per la solidarietà. Se è così, questo potrebbe rallentare il decorso delle cose, così come verificare se gli elettori della zona euro sono veramente disposti a vedere scomparire una maggiore autonomia. Questa non sembra essere l’opinione di Beppe Grillo, in ogni caso.
Perché a questo osservatore britannico sembra che in Italia la verità non sia stata accettata. Il governo Monti è in carica da sei mesi, il che potrebbe significare quasi due terzi del suo mandato, se i partiti politici insisteranno per elezioni anticipate a ottobre. Ma quante cose sono realmente cambiate?
Il principale risultato del governo Monti è stato quello iniziale: il rigore di bilancio. Questo è stato un grande obiettivo, che ha reso l’Italia l’unico Paese della zona euro davvero in grado di soddisfare le regole di bilancio. Ma non è stato accompagnato da alcuna sostanziale liberalizzazione del mercato, e neppure dalla pur molto discussa legge di riforma del mercato del lavoro. Gruppi di interesse di tutti i tipi, dai sindacati alle imprese agli stessi partiti politici, hanno bloccato il cambiamento.
Questa forse non è una sorpresa per gli italiani ormai logorati. Ma agli osservatori stranieri sembra una tragedia. Lo sarebbe davvero se l’Italia, già vulnerabile a causa del suo enorme debito pubblico, ponesse fine a quest’anno di governo tecnico con poche riforme sostanziali e un’economia e una società non meglio preparate ad affrontare qualunque tempesta possa arrivare dal resto dell’Europa.
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa 10.06.12