Semmai ha tardato fin troppo. Sono passati più di cinque mesi da quando il presidente del Consiglio annunciò in televisione che l’esecutivo avrebbe risolto “in poche settimane” la questione Rai e nel frattempo la situazione dell’azienda di Stato è andata ulteriormente deteriorandosi.
Uno dei primi impegni del nuovo presidente e del nuovo direttore generale, anzi, dovrà essere quello di verificare l’attendibilità del bilancio, per denunciarne eventuali buchi o carenze. L’anno prossimo i conti bisognerà farli tornare e possibilmente alla luce del sole, senza artifici o maquillage finanziari. Altrimenti, meglio commissariare formalmente l’azienda per salvare il salvabile.
Ma è soprattutto sul piano dell’informazione – dalla tv alla radio – che il nuovo vertice di viale Mazzini è chiamato a garantire quel pluralismo e quella libertà di espressione che sono stati finora soffocati, mortificati o addirittura espulsi, compromettendo così la stessa sopravvivenza del servizio pubblico. Sopravvivenza economica, ma ancor prima istituzionale, civile, sociale. Dai Tg ai Gr, la Rai deve essere sottratta definitivamente all’oppressione della partitocrazia per essere restituita al controllo dei cittadini, telespettatori e abbonati.
In attesa di queste nomine, è mancato da parte del governo uno sforzo concreto per avviare quella riforma organica che dovrebbe assicurare alla radiotelevisione pubblica una “governance” legittima e una piena autonomia, anche sul piano delle risorse economiche. La Rai oggi continua a essere schiava di due padroni: la politica e l’audience, in un intreccio perverso che finisce per favorire solo il concorrente diretto. E cioè, l’azienda che appartiene tuttora all’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Qualsiasi progetto di ristrutturazione o di ridimensionamento andrà letto perciò con la lente d’ingrandimento, per evitare che l’azienda di viale Mazzini venga smantellata o messa in liquidazione.
Un punto fermo e irrinunciabile è la sua natura di servizio pubblico. Qui, come sull’acqua o sugli altri beni comuni, le privatizzazioni non sono accettabili neppure in nome della ragion di Stato. Ed è bene che le forze politiche più sensibili lo dichiarino fin d’ora apertamente.
Nelle nomine del governo Monti, non vorremmo vedere l’impronta di una “normalizzazione” che non corrisponde né alla natura né alla funzione della Rai. Bisogna evitare il rischio di una sorta di pre-commissariamentoche eludailbisogno di rafforzamento e rilancio della tv pubblica. Non stiamo parlando infatti solo di un’azienda, fatta di costi e di ricavi, che deve opportunamente puntare al profitto o almeno al “pareggio di bilancio”, per rassicurare anche la cancelliera Merkel. La Rai è innanzitutto un deposito dell’identità nazionale; un catasto delle idee e delle opinioni; un “caveau” della memoria collettiva. E spetta perciò alla politica, quella più consapevole e responsabile, bilanciare il primato dell’economia nell’interesse generale dei cittadini.
C’è infine un ruolo pedagogico – sì, proprio pedagogico, nel senso più nobile del termine – che la radiotelevisione pubblica è tenuta a svolgere nei confronti della collettività. “Educare, informare, intrattenere”, raccomandava nell’ordine sir John Reith, fondatore della mitica Bbc inglese. Ma oggi la tv e la radio di Stato intrattengono anche troppo, informano poco ed educano ancor meno.
La Repubblica 09.06.12