Quella del Pd non è una sfida interna tra leader o tra correnti. Non è neppure una competizione con i vicini. O una battaglia di principio contro Grillo. La questione riguarda il governo del Paese – anzi la sua ricostruzione economica, civile, politica – nel mezzo della crisi più grave dal dopoguerra ad oggi.
E in gioco non c’è soltanto una breve stagione. L’impressione è che al bivio nel quale ci troviamo possiamo perdere cose che abbiamo a lungo immaginato come acquisizioni definitive: il modello sociale europeo, inteso non solo come standard di welfare ma anche come garante di opportunità diffuse, e al fondo la qualità stessa della democrazia. Sì. La crisi economica e l’incapacità politica dell’Europa stanno rischiando di compromettere il paradigma democratico: a che serve la politica se non è capace di regolare i mercati e di correggerne gli effetti nella società?
Il compito (storico) del Pd è costruire una proposta di governo che sia all’altezza di questa sfida. Il Pd è oggi sulla scena il solo partito nazionale in grado di fornire una risposta plausibile. Ma guai se si sente «condannato» a governare. Il Pd non è la Dc del dopoguerra. Anche se oggi è al centro del ring, anche se oggi tutti fanno i conti con esso, magari per condizionarlo, per indebolirlo, per colonizzarlo, il Pd non ha da solo la forza per completare la necessaria costruzione. Ha la maggioranza relativa, ma in un passaggio così difficile è necessario disporre di un grande consenso. Ha vinto le amministrative, ma le fragilità e i difetti sono evidenti. Sarebbe sbagliato, oltre che presuntuoso, negarli.
Per questo il Pd deve investire il suo consenso e rischiare. La tecnica attendista contiene un alto rischio di sconfitta. Non c’è bisogno di ricordare l’illusione del ’93 – quando le prime elezioni dirette dei sindaci provocarono la sbornia dei Progressisti – per comprendere il pericolo. Peraltro il pericolo oggi è ingigantito da un largo discredito della politica, da un mancato rinnovamento delle classi dirigenti, da una spinta alla frammentazione che somiglia a Weimar, da una sovranità limitata che penalizza il centrosinistra assai più del centrodestra. Rischiare. Mettere in gioco le posizioni acquisite. Sfidare il pregiudizio negativo. Fare un bagno di umiltà. Questo non vuol dire rinunciare alla vocazione maggioritaria, intesa come orizzonte di un partito nazionale capace di sintesi tra interessi e di concepire un programma di governo. Questo non vuol dire rinunciare alla riforma elettorale: anzi l’impegno per eliminare il Porcellum, e con esso il cancro del maggioritario di coalizione, va moltiplicato (qualunque cosa che somigli ad un sistema europeo è meglio del Porcellum). Questo non vuol dire abbandonare l’idea del partito come luogo costituzionale della rappresentanza democratica e della partecipazione popolare.
Ieri Pier Luigi Bersani ha annunciato che, nel percorso di costruzione dell’alternativa di governo, ci saranno «primarie aperte». In cui sarà contendibile il ruolo del leader. Non era un atto necessario in base allo statuto del Pd. Forse, sul piano della logica di sistema, si può persino dubitare della coerenza di questo proposito. Del resto, ancora non sappiamo se ci sarà la riforma elettorale, se la competizione sarà affidata ai partiti (come in Europa) o ancora a coalizione coatte, se l’Idv sarà un alleato del Pd oppure no, se e quante liste civiche si formeranno. In ogni caso appare necessario, in questo momento, un atto di riconciliazione, di disponibilità, persino di rottura rispetto al percorso della legislatura.
Proprio nel momento in cui si rinnova la lealtà al governo Monti (con il quale non mancano significativi dissensi, e a questi si aggiungono i contrasti crescenti nella maggioranza parlamentare), mentre si cerca di stringere con i progressisti europei un patto programmatico per i prossimi anni, mentre si spendono le ultime risorse diplomatiche per cambiare la legge elettorale (accantonando la proposta-trappola sul presidenzialismo), è necessario un segno di apertura. Alla società, al civismo, alle domande di una politica diversa e più efficace, al bisogno di rimettere in circolo forze nuove. Le modalità delle primarie sono discutibili e le esperienze recenti segnalano, purtroppo, rischi multiformi. Tuttavia ora in gioco c’è il futuro del Pd, e non solo quello di una leadership.
Ma ci sono passaggi in cui il rischio è necessario e l’autodifesa appare egoismo, anziché saggezza. Si tratterà poi di vedere, dopo la prova di umiltà, se a guidare l’impresa sarà ancora, come è accaduto negli ultimi vent’anni, l’ideologia demolitrice del nostro impianto costituzionale e dell’autonomia dei corpi intermedi, oppure se potremo finalmente ricostruire una democrazia di stampo europeo. Se, cioè, anche da noi i partiti democratici diventeranno la normalità. Anche questo decideranno le primarie «aperte» di ottobre.
l’Unità 09.06.12