A Novi i medici, anche loro sfollati, firmano una ricetta dopo l´altra: “Non andiamo a dormire, crolliamo per collasso psicofisico”. Si alza la tensione, scoppiano liti di fronte alle cucine da campo. E si cercano i nemici: i giornalisti curiosi, i geologi, e gli stranieri che “si fanno mantenere da noi”. Non si dice più «come va?» quando ci si incontra, a Novi. Ormai è una domanda retorica. Lo vedono tutti come va: va male, va peggio. Con l´ultima spallata paurosa di domenica sera il terremoto maledetto s´è portato via anche quel povero dente cariato che una volta era il nobile torrione del municipio; e per giunta la mattina dopo piove, a rovesci furiosi, piove sugli accampati e sugli scampati, sulle tendone della protezione civile e sulle tendine delle famiglie, piove e il morale affonda, affoga.
Da domenica sera ci si saluta in un vecchio modo contadino: «tieni botta», in dialetto, «tìn bòta Nello», «tìn bòta Luisa», vuol dire tira avanti, resisti, coraggio. È il fabbro che «tiene la botta», cioè afferra il ferro con una tenaglia mentre lo batte, per assorbire il contraccolpo. Ma è sempre più dura tenere botta a Novi, ultimo bersaglio del terremoto infinito. E adesso, piove. «Dalla terra e anche dal cielo… Che cosa abbiamo fatto per meritarcelo?», la tenda blu a igloo nel parchetto di fianco a casa sembra un canotto in piscina, dentro ci sono due ragazzini, la mamma corre al campo dell´Anpas per chiedere se li ospitano. La pioggia scioglie anche l´orgoglio del faccio-da-me.
Davanti al Comune, rifugiato nell´asilo nido, la fila sotto gli ombrelli è lunga, c´è più gente che chiede ospitalità negli alberghi dell´Appennino, vuol dire che le speranze cominciano a sgretolarsi, che la voglia di ripartire vacilla per la prima volta da due settimane. «Io ci resto anche tutta l´estate in tenda, ma devo lavorare», questa è Cristina che gestisce cinque Conad, uno solo funzionante, «ma ogni volta che viene una scossa è tutto daccapo, un´altalena che non si ferma mai». Il terremoto è un feroce gioco dell´oca, quando credi di aver fatto un passo in avanti, ecco che caschi nella casella «ripartire dal via». Ma quante volte si può ripartire con la stessa forza? L´imprenditore sfollato: «Ho il magazzino pieno di scale da spedire in Nigeria, ma come li convinco i miei ragazzi a venire a lavorare?».
Tenere botta: con la volontà si può, ma ai nervi non si comanda. Davanti al container della farmacia sfollata c´è una fila di sette ombrelli: cinque sono lì per ansiolitici e sonniferi. I medici di base anche loro rifugiati al campo sportivo non risparmiano ricette. «Giriamo tutta la sera a piedi per sfinirci di stanchezza», confessa Paola, accampata in giardino con l´acqua che bolle nella cucina al piano terra, ma la spia da una finestra, «noi non andiamo a dormire: crolliamo per collasso psicofisico». Nella vicina Concordia l´unico negozio aperto è la farmacia della signora Cestari: si rifornisce cinque volte al giorno di Lexotan, Tavor e Alcyon. «È un sollievo, un aiuto d´emergenza», approva Nora Marzi, responsabile del servizio di assistenza psicologica sul campo organizzato dall´Ausl di Carpi: «Queste persone hanno bisogno di sostegno, ma devono anche poter riposare. Lo stress è troppo anche per persone solide, l´ultima scossa è stata tremenda, è vero che non è morto nessuno, ma rischiano di morire i progetti di vita».
Al loro posto cresce un terremoto di rabbia e di impotenza. «Scriva quel che vede e non quel che sente», raccomanda Gabriele, il barista del circolo I Campetti, «qui tutti stanno andando un po´ fuori di testa». Ce l´hanno con tutti e con tutto. Con quelli che scavano i pozzi per il petrolio. Coi giornalisti guardoni. Con gli extracomunitari, va da sé, che affollano le tendopoli e «pretendono tutto, non fanno niente e li manteniamo noi». Con i geologi che «Abbassano l´entità delle scosse sotto il 6 per non farci rimborsare come da legge». Ah, ovviamente con i politici, «guai se gestiranno un solo euro di aiuti, li lascino direttamente a noi». Se la prendono anche uno con l´altro, «mia figlia mi dice delle cose terribili», confessa Anna, infermiera, con le lacrime agli occhi, «si sfoga con chi sa che la perdonerà».
È gente forte questa, ma il sangue contadino ha una sola certezza, che la terra non tradisce, e questa certezza è andata. «Nessuno è di marmo», dice don Ivano, parroco rimasto senza chiesa, «la Chiesa siamo noi, non sono i mattoni», ma anche questa Chiesa di carne ed ossa traballa di fronte al colpo-su-colpo. La terra trema e il cielo s´oscura, sembra la scena del Golgota, padre… «Ma dopo tre giorni c´è la Resurrezione». Qualcuno lassù lo ascolta, la pioggia nel pomeriggio smette, almeno quella. La tensione resta. Scoppiano litigi nella fila per la distribuzione dei pasti precotti, con la scossa e la pioggia le richieste sono improvvisamente raddoppiate, è il popolo delle tendopoli autogestite che non può più o non vuole più cucinare sui fornellini da campo, si esauriscono i vassoi e una donna alza la voce, i volontari le rispondono esasperati, «anche noi dormiamo in tenda signora, cosa crede». Per questo, la task force di psicologi si occuperà anche di loro, «se crolla il morale dei volontari crolla tutto», insiste la dottoressa Marzi. È gente generosa questa di pianura, come Giorgio Cesari, tecnico in cassa integrazione, casa lesionata, dorme in auto, «sotto questa divisa gialla ho sempre gli stessi pantaloni», come coordinatore della protezione civile locale è al lavoro dalla notte del 20, «un bacio alla moglie e via in piazza, la mia gente…», e non finisce la frase, anche i generosi piangono.
Il capo tendopoli, Gian Carlo Arduino, ha studiato una regola nuova: «Chi si allontana dal paese per un paio di giorni non perde il diritto al posto in tenda. Hanno bisogno di un po´ di tregua. Il campo funziona bene, il vero pericolo è lo stress». Il sindaco Luisa Turci tiene botta con orgoglio civico: «È crollato il torrione, il nostro simbolo, ma noi stiamo in piedi, le nostre torri siamo noi e noi faremo di nuovo il futuro di questo comune».
Ma le torri umane rimpiangono quella di mattoni. Quando torna il sole, tanti passano davanti alla piazza Primo Maggio transennata, guardano il vuoto nel cielo dove prima c´era il torrione settecentesco. La campana ancora più antica, dono di Alberto Pio, morde la polvere su un tetto. Sfilano in silenzio, come in una camera ardente. Il pensionato Ettore si commuove di nostalgia, «adesso è un paese come un altro». Il torrione batteva le ore anche quand´era agonizzante. Ma domenica notte non ha più tenuto botta.
La Repubblica 05.06.12